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Viaggio nel buio
Pensateci un attimo: la critica alla convenzioni e all'opulenza della società tedesca viene lanciata e portata avanti da un clown. Curioso, no?
Non ho nulla contro i clown, sia chiaro. Ma inutile nascondere che nell'immaginario collettivo essi vengono associati al ridicolo, alla scarsa credibilità e al divertimento, insomma nulla a che fare con riflessioni politiche e sociali che dovrebbero appunto trattare sulla direzione che il mondo sta prendendo.
Con questa premessa non voglio dire che l'intento di Heinrich Boll sia ridicolizzare coloro che attaccano la nuova modernità, scegliendo quale protagonista un pagliaccio di professione.
Credo piuttosto che tale scelta rafforzi le accuse che vengono scritte in questo romanzo: le storture presenti in quella realtà arrivano a colpire pure un personaggio comune come Hans Schnier, il nostro triste protagonista.
Il dibattito che ho appena lanciato, quale dei due poli vogliamo abbracciare, è aperto, ma non mi appassiona più di tanto: non credo si tratti di un inno all'eterogenesi dei fini. Questo libro è infatti universalmente riconosciuto come un grande j'accuse all'opulenza e al nichilismo che sembrano radicarsi nella Germania di quel tempo. E, conoscendo anche la storia dello scrittore, viene facile pensare che sia effettivamente così.
Rimane il fatto che l'oggetto del racconto e il soggetto di tale racconto siano in sottile contraddizione. Ed è questo il file rouge che lega le parole, le pagine e i capitoli di questo libro.
In fondo l'unico modo per vivere in quella società è estraniarsi, creare una sorta di bolla così da avere quella "sicurezza ideologica" in cui i valori (veri o presunti) vengono preservati. Da qui la paradossale scelta di essere un clown.
Boll fa dire poi ad Hans che "gli attimi bisognerebbe lasciarli così come sono vissuti, mai tentare di ripeterli, di riviverli", salvo poi venire a scoprire che tutto il racconto è un susseguirsi di ricordi, di aspettative, di pensieri, di attimi che il protagonista vorrebbe rivivere e che permettono alla sua mente di rimanere incastrata nel passato così da non avere possibilità di guardare al futuro. Perchè da quella parte vedrebbe solo il buio.
Boll ci consegna dunque un uomo distrutto, vinto e sfinito dall'esistenza. La perdita di Maria, l'unica donna che lui abbia mai amato, è solo uno dei tanti passaggi che Hans rievoca, ma è il più doloroso. Perchè è consapevole che, a saperla libera, la sua presenza avrebbe dato senso e speranza in una società perbenista e ipocrita. Ma così non è. E allora il flusso di ricordi ed opinioni non può che essere intriso di disperazione, rabbia e accorata rassegnazione. Prova disgusto e invidia per tutti coloro che sanno adattarsi a una realtà che non chiede null'altro che una maschera e un'etichetta (come quella del cattolicesimo, dice lui) per poter essere accettati.
Lui rifiuta tutto questo, bandisce ogni azione ulteriore -e così nel racconto nulla accade- e decide di mettersela lui, quella maschera. Letteralmente -per lavoro- alla luce del sole. Mi sembra di sentirlo, mentre si veste, pronto ad esibirsi: "Facciamolo, tanto è tutta una pagliacciata". Ma non può funzionare. Lui è fuori posto, in ogni senso. E infatti si fa male, si rinchiude in albergo e si dedica alle chiamate con i propri "amici" e congiunti, ai ricordi accumulati nel corso del tempo, ai continui rimproveri verso quella che avverte come una degenerazione dell'intera umanità.
Ma sono anche tutti tentativi di eludere il confronto con se stesso, evitando di trovarsi a tu per tu con la propria coscienza.
Il buio non è solo il suo futuro, ma è anche la nostra esperienza da spettatori concentrati nel tentativo di seguire i salti temporali e l'asimmetricità del suo racconto: la piacevolezza viene meno, complice l'assenza di ogni tipo di colpo di scena e diversità dall'ordinario racconto.
Rimane uno scritto tutt'altro che banale, la cui potenza stilistica è al servizio di un viaggio introspettivo e stratificato di un personaggio estremamente complesso.
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