Dettagli Recensione
Giobbe americano
PASTORALE AMERICANA (1997)
di PHILIP ROTH (1933-2018)
GIOBBE AMERICANO
1. IL TITOLO.
Il titolo ha chiaramente una coloritura religiosa così come il titolo delle tre parti in cui il libro è diviso (ognuna suddivisa in tre capitoli): Paradiso ricordato, La caduta, Paradiso perduto. Non ho conoscenze sufficienti per addentrarmi in questo aspetto, al di là di quello che si desume chiaramente dalla trama: la caduta di un uomo angelico, tendenzialmente perfetto, in seguito all’implosione di quello che credeva essere il paradiso: la sua famiglia, il suo paese. Un altro elemento è legato al racconto biblico: tra le letture d’infanzia del protagonista c’è “Il ragazzo di Tomkinsville”, “Libro di Giobbe per ragazzi” (p. 11), che insegna come la virtù non sia necessariamente ricompensata con la felicità. Che è in estrema sintesi quel che il libro racconta.
2. TEMA.
Questo libro straripante di intelligenza e di sentimento si affaccia su due versanti: 1. da un lato quello della vita intima e familiare di un uomo, Seymour Levov detto “lo Svedese”, quarta generazione di ebrei trapiantati negli Stati Uniti, che tra la fine degli anni ‘40 e i ’50 faceva “sognare” tutta la comunità ebraica di Prince Street coi suoi successi sportivi e la sua bellezza assolutamente yankee (e non se la tirava!); 2. dall’altro lato quello politico dei cambiamenti sociali, politici e culturali negli USA dalla fine della Seconda guerra mondiale fino agli anni ‘90, e cioè dai mitici anni dell’infanzia del personaggio narratore, quelli dell’America gigante forte e buono, a una ventina di anni fa: ad oggi, si può dire. In questo arco di tempo il “sogno americano” si è disgregato. Nell’America (o nell’Occidente?) raccontata da Roth, l’amore per la propria famiglia e l’amore per il proprio lavoro, anzi, più precisamente, per il prodotto del proprio lavoro, vengono soppiantati da egoismo lassismo pirateria morale, portando al degrado tutta una società che si considerava (che il protagonista considerava) felice.
3. TRAMA E STRUTTURA.
Il romanzo comincia così: “Lo Svedese. Negli anni della guerra, quando ero ancora alle elementari, questo era un nome magico nel nostro quartiere di Newark”: è lo scrittore Nathan Zuckerman, alter ego di Roth anche in altri romanzi - ho letto - che racconta la storia di Seymour Levov, l’idolo della sua infanzia e della sua giovinezza, tanto da pesare sulla formazione del suo sistema valoriale. La racconta dopo che nel 1995 apprende, in occasione della 45a riunione degli ex allievi della sua scuola, che il suo vecchio idolo Seymour Levov è morto di cancro pochi giorni prima. In realtà dopo averlo perso di vista per trentasei anni, nel 1985 Zuckermann aveva già incontrato Seymour casualmente e lo aveva rivisto poco dopo in un incontro sollecitato da Seymour stesso per parlargli - gli aveva scritto - di suo padre Lou, morto l’anno prima, perché scrivesse qualcosa su di lui. Ora, per tutto il loro incontro Seymour non aveva fatto che parlargli entusiasticamente dei suoi tre figli Kent, Steve e Chris, senza dirgli nulla di significativo: di autentico, e Zuckermann aveva trovato straordinariamente insulso quell’uomo che pure era stato un mito per lui e per tanti altri: “Mi sbagliavo. Non mi ero mai sbagliato di più sul conto di nessuno in vita mia” (p.41). Capisce infatti, in quella riunione di ex -allievi, che Seymour gli aveva taciuto proprio ciò che era stato un dramma per lui, uomo innamorato del proprio lavoro della propria famiglia dell’America: un primo matrimonio da cui gli era nata una figlia, Meredith, detta Merry cioè “lieta”, che nel ‘68 aveva ucciso una persona in un attentato terroristico, rinnegando proprio tutto ciò in cui tutta la sua famiglia credeva. Così, intanto che balla con una vecchia ex allieva con cui in gioventù ha amoreggiato, a Zuckermann accade una cosa:
“Sognai - dice - una cronaca realistica. Cominciai a studiare la sua vita (…) e inspiegabilmente, zacchete! lo trovai a Deal, New Jersey, nella casa al mare (...)” (p. 92).
Zuckermann comincia così a immaginare, con una ricchezza una finezza una profondità veramente geniali, tutte le situazioni e i possibili scenari della vita di Seymour, di sua moglie Dawn e di Merry, la quale crescendo era diventata uno dei tanti “ferali difensori degli oppressi della terra” (p. 416) e poi una seguace del giainismo, che in nome di una non violenza spinta agli estremi aspira alla morte.
Una scelta singolare di Roth è di raccontare, attraverso lo scrittore Zuckermann, non tutta la vita dello “Svedese”, ma quello che gli era accaduto (poteva essergli accaduto) fino a circa 15 anni prima della sua morte e della riunione degli ex allievi in cui Zuckermann apprende la sua morte. Immagina cioè la sua storia fino alle ore immediatamente successive al momento in cui Seymour ha ritrovato la figlia ex-terrorista e ora giaina in un sottopassaggio ferroviario dove vive senza neanche più lavarsi nè quasi mangiare e, sconvolto, torna a casa, dove sono riunite per cena alcuni amici di famiglia, compresa l’amatissima moglie Dawn, Miss New Jersey da giovane benchè figlia di un immigrato irlandese, che sorprende in un atteggiamento inequivocabile con un ospite. E che succede poco dopo, cioè nell’ultima pagina? Succede una scenata grandguignolesca degna di Grosz o di Canetti: la vecchia amica di famiglia Jessie, ubriaca, colpisce al viso con una forchetta il padre di Seymour che vuole convincerla a non bere più. Al che, Marcia Umanoff (quindi altra figlia di immigrati), “professoressa di lettere a New York, (…) una nonconformista militante estremamente sicura di sé, molto portata al sarcasmo e a dichiarazioni calcolatamente apocalittiche destinate a mettere a disagio i signori della terra” (p. 339), vedendo il vecchio Levov con la faccia insanguinata e incredulo di fronte alla follia della vecchia amica Jessie, “Cominciò a ridere (…) a ridere e ridere e ridere di tutti loro, colonne di una società che, con sua grande gioia, stava rapidamente colando a picco; a ridere e a mostrare il proprio godimento (…) per l’ampiezza che aveva preso il disordine galoppante, apprezzando enormemente l’attaccabilità, la fragilità, l’indebolimento di cose che avrebbero dovuto essere robuste. Sì, si era aperta una breccia nel loro fortilizio (…) e ora che era aperta non si sarebbe più chiusa. (…) Tutto è contro di loro, tutto ciò e tutti coloro che non apprezzano la loro vita (…) MA COS’HA LA LORO VITA CHE NON VA? COSA DIAVOLO C’È DI MENO RIPROVEVOLE DELLA VITA DEI LEVOV?”
Su ciò che è accaduto allo Svedese dopo questo momento drammatico, ossia nei quindici anni antecedenti la sua morte, noi apprendiamo nel cap. 3 della prima parte quel poco che ne dice a Zuckermann il fratello Jerry in occasione della riunione degli ex allievi: lo Svedese aveva avuto un’altra moglie e altri figli, quei tre di cui Seymour gli aveva raccontato quando si erano rivisti nell’85, e ha rivisto più volte sua figlia che intanto è morta o forse no (cenno a p. 85): nient’altro. Evidentemente questa seconda vita di Seymour era un’altra storia oppure semplicemente ci volevano altre 500 pagine per raccontarla e Roth non se la sentiva :)
4. COSA HA DISTRUTTO “IL SOGNO AMERICANO” E QUELLI CHE CI CREDEVANO ?
Nel mondo rappresentato e amato da Seymour Levov l’economia e il lavoro erano basati su un’industria manifatturiera in cui determinante era il saper fare, ben diverso dal semplice eseguire gesti meccanici, e leggendo il libro non si finirà di stupirsi di quanta conoscenza c’è in certa manualità: non per caso il prodotto che ha fatto la ricchezza e l’orgoglio dei Levov sono i guanti (non ricordo in che capitolo Lou Levov spiega al figlio come la struttura della mano abbia determinato lo sviluppo dell’intelligenza della specie umana). Certo Roth piange la scomparsa di quel modello economico in cui il padrone e l’operaio (parola che non compare mai nel libro, mi sembra) erano accomunati dall’amore per ciò che fabbricavano. In effetti, attraverso i suoi personaggi, Roth parla in termini molto critici degli imprenditori che hanno delocalizzato la produzione accontentandosi di una più scarsa qualità del lavoro e dei prodotti in nome di un maggior profitto, così come esprime la più netta disapprovazione per la guerra nel Vietnam, per la classe politica coinvolta nel Watergate, i simpatizzanti del Ku Klux Klan. Però anche e forse soprattutto Roth denuncia il progressivo svilimento della morale puritana dell’America dura ma aperta al merito di tanti emigrati di diverse religioni e culture, svilimento favorito dai partigiani del “politically correct”, in primis l’intelligentsia di sinistra, che per esempio ha “sdoganato” un film quale “Gola profonda” o dato un appoggio incondizionato alle idee di Angela Davis (mi sembra che ci sia qualche analogia tra le idee di Roth e quelle della Fallaci).
5. STILE.
Roth ha un talento veramente insuperabile nell’immaginare delle scene alla stregua di un regista, e certe pagine potrebbero essere pagine di una sceneggiatura. Però lui vuol render conto non solo e non tanto di quello che si dice e si fa, ma soprattutto di quei milioni di cose che si pensano intanto che si parla o si agisce altrimenti, cose appartenenti ai momenti più diversi della vita, e quindi ... come montare su una pellicola sia le parole che si dicono sia i contenuti così vari del vissuto interiore dei personaggi che sono … in scena? E poi Roth vuole raccontare nientedimeno che … una vita! E non basta. Vuole raccontare anche almeno l’essenziale delle vite che si intrecciano con quella vita: perché c’è sì il protagonista, Seymour “lo Svedese”, personaggio indimenticabile, ma poi ci sono suo padre, sua madre, il fratello, la moglie Dawn, la figlia Merry, quella che mette la bomba, ci sono i vecchi compagni di scuola ... Quindi il teatro no, ma neanche il cinema. La scrittura invece supera qualunque limitazione perché il lettore può rileggere, sospendere la lettura, riprendere ...
È chiaro che una scrittura che renda conto della continua invasione del campo visibile da parte delle parole che pronunciamo interiormente è una scrittura che richiede attenzione da parte del lettore. Se per esempio la narrazione di una cena o di un incontro fra ex-allievi si dipana lungo decine e decine di pagine, il lettore non apprende soltanto ciò che i personaggi fanno e dicono, ma anche ciò che il personaggio principale pensa (spesso su ciò che gli altri pensano). Per cui tra la battuta “Butto giù la pasta?” e “Scolò la pasta” - sto inventando -, abbiamo letto decine di pagine che con quella pasta non c’entrano niente o c’entrano molto indirettamente. Si dirà: come Proust! Sì, ma fino a un certo punto, soprattutto perché mai in Roth le frasi sono lunghe e complesse, anzi la sua lingua è estremamente “naturale”: i suoi personaggi parlano agli altri e a se stessi come chiunque di noi. Inoltre, almeno per me, le gioie e le sofferenze di Seymour, gli interrogativi che si pone, gli sforzi che fa per salvaguardare la felicità dei propri cari è troppo coinvolgente per non conquistare il cuore del lettore. Per cui, al bisogno, si rilegge volentieri :). Anzi, devo dire che intanto che scrivo queste righe, sentendo le voci di giovani padri e madri che parlano coi loro bambini piccoli che giocano e ridono, penso allo Svedese e a Dawn, e mi auguro che mai questi genitori e questi bambini vedano la distruzione del loro paradiso.
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Libro "straripante di intelligenza e sentimento" , letto e riletto, assai apprezzato . Purtroppo, dell'autore non ho trovato nulla che possa accostarsi per qualità.