Dettagli Recensione
L'AMORE CASTO
“Il disegno del piviere” è il seguito che Kawabata ha voluto dare, a un anno di distanza, al suo romanzo di successo “Mille gru” e – va detto subito – presuppone nel lettore la conoscenza del predecessore, pena l’incomprensibilità di alcuni passaggi narrativi. I personaggi de “Il disegno del piviere” sono infatti gli stessi di “Mille gru”, anche se la storia è posteriore di circa un anno e mezzo, lasso di tempo nel corso del quale sono avvenuti ben due colpi di scena. Da una parte, Fumiko, che si poteva sospettare essersi suicidata (dal momento che si era congedata da Kikuji con la frase sibillina “la morte attende ai miei piedi”), è in realtà partita per un viaggio in un paese lontano, facendo perdere le sue tracce e ricomparendo nella vita di Kikuji solo in forma epistolare. Dall’altra, Yukiko, che la diabolica Chikako aveva detto, alla fine del libro precedente, essersi già maritata con un altro pretendente, all’inizio del nuovo romanzo è invece appena diventata la signora Mitani, ossia la moglie di Kikuji. Durante la luna di miele, Kikuji, che in “Mille gru” era diventato l’amante della madre di Fumiko e – per una notte – della stessa Fumiko, non riesce a consumare il matrimonio, ossessionato dalla vergogna e dai sensi di colpa per le sue precedenti avventure erotiche, quasi che esse potessero profanare la purezza di Yukiko, per la quale egli prova un profondo senso di tenerezza e di gratitudine. Il romanzo sarebbe in fondo tutto qui, con in più la comparsa fugace di Chikako, vero e proprio “diabolus” ex machina, nei momenti più imbarazzanti della vita coniugale dei novelli sposi, ed i genitori della ragazza che sospettano (ma forse è solo la cattiva coscienza di Kikuji a farglielo vedere) l’infelicità della figlia, se non fosse che il capitolo centrale è dedicato alle lettere scritte da Fumiko a Kikuji. Se da un lato questa parte appare abbastanza pleonastica e ridondante, poiché rivela nei minimi dettagli ciò che era accaduto nel libro precedente e che era rimasto ammantato da un suggestivo alone di reticenza e di mistero, dall’altra va riconosciuto che la forma epistolare (come in molte altre opere che, da quando è nata la letteratura, hanno usato questo espediente) è quanto mai congeniale per entrare nella psicologia del personaggio di Fumiko, permettendo di rompere, in una sorta di autoanalisi priva di remore e di inibizioni, quel muro di riserbo che i rapporti formali, soprattutto in una cultura cerimoniale e formalistica come quella nipponica, avrebbero giocoforza innalzato. Grazie alle lettere, Fumiko si mostra al lettore senza filtri, per quello che realmente è, una donna sofferente e innamorata che sceglie – quasi per espiare la vergognosa colpa per il suicidio della madre e il cocente rimorso per essersi concessa, in un obnubilante momento di abbandono erotico, all’uomo che segretamente ama, ma che della madre era anche stato l’amante – di fuggire lontano, senza dare preavvisi e spiegazioni, in quello che ufficialmente è un viaggio per visitare per la prima volta il remoto paese natale del padre, ma che in realtà è un vero e proprio esilio (dall’amore e dalla vita) autoinflitto per tacitare una coscienza esacerbata.
Nonostante il matrimonio, Kikuji – che, lo ricordo, è un personaggio estremamente abulico e passivo, una sorta di versione giapponese dell’inetto a vivere sveviano, oscilla inconsciamente tra le due donne della sua vita, non riuscendo a liberarsi del ricordo della prima (che era “come una farfalla fantasma che volteggiasse nella sua mente. Gli sembrava di sentire sempre il palpitare di quelle ali nelle profondità oscure dei suoi pensieri”) né a concedersi pienamente alla seconda. “Era come se le figure delle due giovani si fossero fuse in un’unica creatura irraggiungibile”, e questo chimerico ircocervo sentimentale strazia Kikuji, inducendolo al tormentoso pensiero su “che senso avesse in fin dei conti essersi sposato”. Nella apparentemente idilliaca vita di coppia trapelano pertanto, sempre più minacciosi e frequenti, dei lampi di ambiguità, di impalpabile disperazione, i quali si materializzano nelle navi da guerra americane che svegliano in piena notte i due coniugi con l’assordante rumore delle loro esercitazioni notturne. Il romanzo ha un finale aperto e inconcluso il quale, a pensarci bene, avrebbe anche potuto legittimare un ulteriore seguito, cosa che per fortuna non è avvenuta, dal momento che lo stesso “Disegno del piviere”, pur impreziosito da un raffinato simbolismo (ad esempio, la bambina caduta dal ponte, e salvatasi perché il suo corpicino è finito proprio in mezzo a tre rocce, fa ottimisticamente pensare a Fumiko che ci sia sempre una opportunità di salvezza, anche tra le pietre del peccato e della corruzione) e dalle consuete immagini di oggetti tradizionali (tazze e vasi per la cerimonia del tè) che richiamano metaforicamente concetti di bellezza e di armonia i quali, come l’amore, sono costantemente minacciati dalla mediocrità e dalla volgarità dei tempi moderni, lo stesso “Disegno del piviere” – dicevo - non aggiunge in fondo molto di più a quello che Kawabata ci aveva già generosamente elargito in “Mille gru”.