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L'AMORE SACRIFICATO
In uno dei più bei film della storia del cinema, “In the mood for love”, girato all’inizio del nuovo millennio dal regista hongkonghese Wong Kar-wai, i due protagonisti sono un uomo e una donna, vicini di casa, i quali, traditi dai rispettivi consorti, intessono una delicata e struggente relazione platonica, fatta di sentimenti inespressi, emozioni trattenute e segreti taciuti. Questi due indimenticabili personaggi cinematografici mi hanno ricordato il rapporto, per molti versi analogo, intessuto da Kikuji e Fumiko nel corso del breve romanzo di Yasunari Kawabata “Mille gru”. Qui non ci sono dei coniugi fedifraghi a condizionare la relazione, ma due genitori che in passato sono stati amanti e che, pur morti entrambi, continuano a far sentire i loro influssi sui due discendenti, trasformandoli in simboli delle occasioni mancate e dell’amore procrastinato. La persistenza del ricordo dei morti nella vita dei vivi, la quale crea un paradosso tale che questi ultimi sono figure più sbiadite e passive di coloro che, pur non essendoci più, purtuttavia fanno sentire la loro ingombrante presenza, così come l’ineliminabile permanenza del passato nelle cose (l’ombra del rossetto della signora Ota sulla tazza da tè), mentre la fisionomia delle persone fatalmente svanisce col tempo (Kikuji ricorda di Yukiko il fazzoletto che indossava il giorno in cui l’ha conosciuta, ma non riesce più a rammentare il suo viso), sono solo due dei temi di quest’opera caratterizzata da un’algida (e molto nipponica) eleganza formale e da una semplicità sintattica capace di nascondere sotto la sua cristallina superficie una apprezzabile profondità tematica. “Mille gru” è un romanzo che, pur nella sua apparente astrazione, mette in primo piano, assai più che le persone, gli oggetti (il fazzoletto col disegno bianco delle gru al collo di Yukiko, il vaso cilindrico con l’omaggio funebre in onore della signora Ota, ecc.), i quali da una parte hanno un forte significato simbolico, come nel capitolo conclusivo in cui la scomparsa di Fumiko viene anticipata dalla rottura della coppa Shino, dall’altra si elevano dalla loro materica concretezza per farsi ipostasi di concetti come la bellezza e l’armonia, valori di un mondo in cui la forma sublima le imperfezioni della vita, assorbendo paure, meschinità e sensi di colpa. Pace, compostezza e serenità spirituale trapelano così dalle tante cerimonie del tè cui assistiamo nel corso dell’opera, in cui l’accostamento dei colori di tazze, bricchi e teiere e la giusta corrispondenza di fiori e disegni con la stagione in corso assumono un’importanza tale da poter essere compresa solo da un pubblico iniziato e sensibile alle filosofie orientali e alla disciplina zen. E’ forse per questo che “Mille gru” è visto da molti come l’archetipo di una “giapponesità” ideale e fuori dal tempo, fatta di variopinti kimoni tradizionali, eleganti padiglioni del tè e compunti maestri di cerimonia. In realtà lo sguardo di Kawabata è tutto tranne che artefatto e manierato, come questa visione lascerebbe presumere. Basti pensare al fatto che la cerimonia del tè, con la sua ritualità quasi religiosa e la sua raffinatezza di gesti e suppellettili, è appannaggio nel libro di un personaggio negativo come Chikaku, sgradevole e ripugnante come la voglia che porta sul seno, donna insinuante, furba e intrigante, una mezzana falsa e calcolatrice che, con la ipocrita pretesa di aiutare Kikuji a trovar moglie, persegue solo i propri meschini obiettivi. D’altro canto Kikuji e Fumiko non hanno alcun interesse a coltivare questa tradizione, da loro considerata come un retaggio del passato. Si insinua pertanto nella prosa di Kawabata, al di là della sua apparente perfezione formale, una notevole ambiguità tematica: da una parte la cerimonia del tè rappresenta infatti i valori di un mondo che, come i genitori morti, è ormai scomparso ed è visto con una sorta di idealizzata nostalgia, dall’altra essa rivela i limiti di un formalismo che intralcia l’avvento dei tempi nuovi (si veda il bricco Shino che Kikuji tenta inutilmente di convertire in vaso da fiori), Nella cerimonia del tè Kawabata delinea quindi il dissidio interiore di una nazione sospesa tra tradizione e modernità, tra rimpianto dei bei tempi andati e l’affermazione inesorabile dei modelli di vita occidentali. Kikuji, uomo debole, irresoluto e senza volontà, goffo e spesso interdetto nel corso dei dialoghi con le donne (più simile in questo ai personaggi di Tanizaki, come il Kaname de “Gli insetti preferiscono le ortiche”, che a quelli di Mishima), un inetto a vivere irretito e manipolato in una spregiudicata partita di scacchi in cui lui è, pur ignorandolo, una semplice pedina e le due giovani “candidate”, Yukiko e Fumiko, la posta in gioco, Kikuji – dicevo – sta in mezzo a tutto ciò, incapace di scegliere quello che gli suggerisce il cuore e di adeguarsi tanto al passato e al suo lascito emotivo e materiale (la casa di famiglia e gli oggetti ereditati della cerimonia del tè che dice più volte di voler vendere) quanto al futuro di una vita matrimoniale desiderabile e non imposta dall’esterno. “Mille gru”, in cui i cinque capitoli sono quasi dei racconti perfettamente compiuti e autosufficienti, ha un finale aperto, triste e malinconico, che ha reso possibile, a distanza di un solo anno, un suo seguito, “Il disegno del piviere”.
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Terrò in wishlist questo titolo, soprattutto perché firmato da un grande autore
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