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Troppo tardi per perdonare
(…)vorrei un affetto sicuro e sereno... Eppure non sono più una bambina, ho l’età in cui si tagliano con orrore i vincoli affettivi più dolci... Sì, ma a me questa dolcezza è mancata... E poi, non essere stata una bambina quando era il momento di esserlo forse fa sì che non si possa mai maturare come gli altri; si è appassiti da un lato e ancora acerbi dall’altro, come un frutto esposto troppo presto al freddo e al vento...”.
Nella Némirovsky, scrittrice strappataci anzitempo, storia e autobiografia si intrecciano inestricabilmente in molte sue opere.
Anche qui, come ne “Il ballo”, che ho letto giorni fa, torna l’eterna tematica del conflitto con la figura materna che si traduce spietatamente nel detto Mors tua, vita mea.
La piccola Hélène, protagonista de “Il vino della solitudine”, si pone come obiettivo di vita quello di vendicarsi della madre, della sua freddezza, dell’amore e dell’affetto mancati nell’infanzia. Hélène vuole dimostrare a sua madre Bella che anche a lei spetta una piccola “fetta di felicità nel mondo”, le strapperà anche l’amante, se necessario, sarà la sua terribile rivale.
Tale conflitto, tale spietato odio, oserei definire contro natura nel rapporto madre-figlia, ricorre in più opere della Némirovsky e diventa sempre più crudele e irreversibile.
La figura paterna è l’unica figura amata, anche se non sempre presente, perché lontana per viaggi di affari: solo dal padre Hélène accetta baci e manifestazioni di affetto.
“Hélène assomigliava solo a lui, ne era il ritratto fedele. Da lui aveva preso il fuoco degli occhi, la bocca grande, i capelli ricci e la carnagione scura dal colorito che tendeva al giallognolo non appena la bambina era triste o sofferente.”
Boris Karol, papà della protagonista, ha però tante debolezze: la più grande è l’amore verso la moglie Bella. Le perdona i capricci, le sfuriate, l’incostanza: è l’unico che mantiene la famiglia, porta “milioni, milioni, milioni” in casa che servono alla consorte per avere gli abiti più costosi di Parigi e per fare doni al suo giovane amante, Max. Una relazione adultera, una delle tante, di cui lui fingerà di non essersi accorto. Boris ha anche il vizio del gioco e della scommesse: perde interi patrimoni, anche se a volte riesce a recuperare denaro con azzardi in Borsa.
La madre, Bella, è una donna leggera, frivola e fredda, che considera la figlia dapprima come un fardello, poi come oggetto da maltrattare, “stai dritta, stai composta”, mai un gesto o una parola affettuosa. Ama i viaggi, adora Parigi, le avventure clandestine, legge giornali di moda, sogna ad occhi aperti di
“Stringere fra le braccia un uomo di cui non sapeva da che paese provenisse né come si chiamasse, un uomo che non l’avrebbe mai più rivista, questo soltanto le dava quell’emozione forte che cercava. E pensò: «Ah, non sono nata, io, per fare la brava mogliettina borghese placida e soddisfatta, con un marito e una figlia!».”
Il lettore si imbatterà in uno stile secco, asciutto, che lancia fendenti nell’animo, descrizioni efficaci tratteggiate sapientemente con pochi tratti essenziali.
Abusi, debolezze, sesso, ricchezze, nell’aria vento di guerra imminente, spostamenti continui da Pietroburgo a Parigi. Questi ultimi biograficamente si traducono nel bilinguismo dell’autrice: la Némirovsky non scrive nella sua lingua madre,il russo, ma in francese, la lingua della patria adottiva, da cui spera di ottenere la cittadinanza.
È il romanzo della borghesia del tempo, legata ai precari e sfuggenti meccanismi della Borsa: quotazioni, azioni, perdite profitti che ora ti coronano d’oro e diamanti ora ti spogliano di tutto e gettano famiglie onorabili sul lastrico.
“Tutti si arricchivano. L’oro sembrava sgorgare a fiotti, e quella fiumana aveva un corso talmente capriccioso, impetuoso, tumultuoso da spaventare persino quelli che vivevano sulle sue rive e vi si abbeveravano. Tutto era troppo rapido, troppo facile... Appena si era entrati in possesso di un titolo di Borsa, ecco che si vedeva il suo valore schizzare alle stelle. Intorno a Hélène non si sparavano più, festosamente, delle cifre: adesso si sussurravano. Non erano più «milioni» quelli che sentiva, ma «miliardi», pronunciati con voce esitante, bassa e ansimante, e lei non vedeva attorno a sé che sguardi avidi e smarriti”.
Questo senso di esaltazione e di precarietà però sembra solo sfiorare Hélène, presa com’è dall’attesa di diventare donna, e di mostrare alla madre di conoscere già tutte le sottili arti della seduzione e di prendersi una rivincita su di lei. Per questo motivo non si prova compassione per Hélène, nè riusciamo a capire questo odio terribile che prova verso la madre. Tuttavia il disgusto che prova verso di lei, lo proverà ben presto anche verso se stessa, perché si renderà ben presto conto che lo stesso fuoco che brucia nella madre, brucia anche in lei. Le somiglia più di quanto sia capace di ammettere.
Ci saranno brevi e intensi guizzi di compassione verso la madre, ormai sfiorita, che paga giovani e aitanti gigolò per illudersi di una giovinezza ormai dipartita, ma tali barlumi di tenerezza durano pochissimo. Hélène sa che è ormai troppo tardi, conosce troppo bene se stessa e sa che è incapace adesso di perdonare. È stata educata ad offendere, a tradire, a abusare, a ingannare.
Vendicarsi è il suo ineluttabile e spietato destino.
Non c’è spazio per riflettere e parlare, non c’è tempo per perdonare.
Indicazioni utili
Tutte le opere dell’autrice
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