Dettagli Recensione
Il mio nome è Beth Harmon
«Qualcosa nella sua vita era stato risolto: conosceva i pezzi degli scacchi, sapeva come si muovevano e si catturavano, e sapeva come far rilassare lo stomaco e le articolazioni, delle braccia e delle gambe, con le pillole che le dava l’orfanotrofio.»
Beth Harmon ha otto anni quando perde i genitori in un incidente stradale e ritrovandosi orfana entra in orfanotrofio. Classe 1940 la giovane si trova a vivere in una realtà americana, quella tra gli anni ’50 e ’60, fatta di sconvolgimenti ma soprattutto in una società dove per tenere a freno i giovani urlanti si è soliti loro somministrare delle pillole verdi, dei tranquillanti che creano dipendenza e dai quali è sempre più difficile staccarsi. Beth matura nei confronti di questi una necessità impellente che nemmeno negli anni riesce a controllare, che nemmeno con il crescere riesce a frenare. Anzi, negli anni che passano a questa prima dipendenza si somma anche quella data dalle sostanze alcoliche. È l’incontro con gli scacchi grazie al custode Shaibel in quei giorni di orfanotrofio a portare alla luce il suo talento innato per gli scacchi. Poche mosse, poche lezioni, tanta osservazione e le sue capacità vengono a galla rendendola una bambina prodigio. Anche quando è costretta a smettere di giocare a causa di un fatto relativo ai tranquillanti, anche quando riesce ad essere adottata e a riprenderli in mano. La scacchiera per lei non ha segreti e anche se sono trascorsi tre anni e ora ne ha ben dodici, quasi tredici, è come se non si fosse mai fermata. Hanno inizio i primi tornei, le prime vittorie ma anche le prime cadute. E quelle pillole verdi son sempre lì, sempre pronte a salvarla dalle sue paure, sempre pronte a gestire quelle che sono le sue ansie. Ma cosa significa vivere? Come si può convivere con il dolore, la propria fragilità, la propria incapacità di stare al mondo senza un aiuto esterno?
«E cos’è importante, allora?»
«Vivere e crescere» disse la signora Wheatley con sicurezza. «Vivere la propria vita.»
Si susseguono i lustri e pagina dopo pagina conosciamo della vita della giovane protagonista sino ai quasi ventidue anni. Assistiamo alle sue cadute e alle sue vittorie e siamo trascinati in una storia dove a governare sono tre elementi: la passione per gli scacchi collegata al tema del riscatto femminile e la tematica delle dipendenze. È chiaro che Tevis, a prescindere da quello che oggi è l’adattamento televisivo che premetto non aver visto, in quel 1983 aveva quale obiettivo quello di scrivere un’opera che riuscisse a rendere il clima della guerra fredda, l’amore per un gioco complesso ma affascinante, sino a giungere in un ultimo a trattare il tema dell’emancipazione femminile in lotta a quella discriminazione di genere che spesso riguarda il gentil sesso e che qui viene contestualizzata in una dimensione prettamente maschile quale quella della scacchistica.
L’opera giunge al lettore con tutte queste caratteristiche e invita alla riflessione ma non manca altresì di suscitare domande quali: perché? Perché se alcune problematiche sono chiare e inequivocabili, altrettante proprio non sono spiegabili e vengono percepite come un qualcosa in più di forzato e di non approfondito. In particolare quel che viene lasciato molto alla libera interpretazione e che viene meno approfondito è l’aspetto della dipendenza. Sappiamo che Beth matura questa in orfanotrofio, che per effetto non le viene mai insegnato ad affrontare le difficoltà quanto a fuggire da esse con l’aiuto di tranquillanti, prima, e dell’alcol, poi, ma vengono lasciati buchi che lasciano perplessità e che portano a chiedere delle ragioni del suo comportamento. Intuibili ma nulla più.
Resta il grande pregio di riuscire ad appassionare al tema degli scacchi sia il lettore avvezzo che neofita in quelle che sono le descrizioni delle partite e dei tornei, giunge il modello di eroina del genere femminile seppur con tanti scheletri nell’armadio ma non riesce a convincere pienamente.
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