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LA MALEDIZIONE DEL SANGUE
“Alle volte ho pensato come il diavolo l’avesse avuta vinta su Iddio.”
Jorge Luis Borges, uno che di letteratura se ne intendeva, diceva di conoscere due tipi di scrittori, quelli la cui principale preoccupazione sono i procedimenti verbali, la tecnica formale, in una parola lo stile, e quelli invece interessati prioritariamente alla storia e al carattere dei personaggi, e che solo pochissimi tra i grandi romanzieri del passato erano in grado di esaltare nelle loro opere entrambi gli aspetti contemporaneamente: tra questi riteneva che il più eminente e il più bravo fosse senza dubbio William Faulkner. Non posso che condividere appieno l’autorevole giudizio del grande autore argentino, ma mi piace altresì evidenziare, da appassionato lettore delle opere di Faulkner, un’ulteriore caratteristica che lo contraddistingue e lo rende un esempio forse più unico che raro nel panorama della letteratura moderna, il fatto cioè che il suo stile non si riproponga mai identico da un romanzo all’altro. Egli passa infatti dallo spericolato stream of consciousness de “L’urlo e il furore” (reso ancor più impervio dal fatto che nella prima parte ad esprimerlo sia un ritardato mentale) alla prosa barocca e spiraleggiante di “Assalonne, Assalonne!” (tutta frasi lunghissime, incisi su incisi, subordinate dentro subordinate, e parentesi che si aprono e sembrano non dover chiudersi mai), senza rinnegare, in “Santuario” e in “Luce d’agosto”, la maniera più classica e tradizionale, quella con il narratore onnisciente in terza persona. Faulkner è come quegli allenatori di calcio in grado di variare la disposizione tattica della propria squadra in base all’avversario che affrontano (passando dal 4-3-3 al 3-5-2 o magari al 4-3-1-2). Fuor di metafora, lo scrittore del Mississippi è capace di adottare in ogni suo libro lo stile di scrittura che meglio si adatta alle vicende raccontate; e, sebbene la mia personale preferenza vada pur sempre al Faulkner più inventivo e sperimentale, debbo riconoscere che quella di “Luce d’agosto”, fatta di atavismo e di ossessione, di fatalismo e di follia, di fanatismo e di violenza, è una storia narrata in modo meraviglioso e indimenticabile.
Numerosi sono i personaggi di “Luce d’agosto”, tutti in qualche modo randagi, forestieri, stranieri mai del tutto assimilati a quella comunità diffidente, ostile e bigotta che è la città di Jefferson (nella contea di Yoknapatawpha in cui Faulkner ha ambientato la maggior parte dei suoi romanzi): c’è Lena Grove, una ragazza in avanzato stato di gravidanza giunta a piedi dall’Alabama per cercare Lucas Burch, il padre del bambino che porta in grembo, il quale aveva mesi prima lasciato il paese natale alla ricerca di una sistemazione stabile per la coppia, ma che da allora non ha più dato notizie di sé; c’è Byron Bunch, uno “di quel genere di uomini che mai si riesce a vedere alla prima occhiata”, timido e commovente buon samaritano che prende a cuore la situazione della partoriente, sostituendosi per amore e per compassione, pur senza riporre nella donna e nel nascituro eccessive aspettative personali, alla figura vigliacca e fedifraga del di lei compagno; c’è il reverendo Hightower, un prete spretato e umiliato dalla comunità dopo lo scandalo della moglie adultera e suicida; c’è Joanna Burden, l’ultima erede di una famiglia di abolizionisti del New England, che vive sola in una grossa villa alla periferia della città, emarginata e malvista dalla gente del posto in quanto considerata “amica dei negri”. La figura cardine del romanzo, l’autentico motore della storia che ne determina gli esiti nefasti e fatali, è però Joe Christmas, personaggio irrequieto e ombroso, taciturno e sfuggente, dall’imperscrutabile “faccia nebbiosa”, il quale non è soltanto, come gli altri, estraneo alla comunità che lo ha accolto tre anni prima, ma lo è perfino nei confronti di se stesso. Egli è un personaggio profondamente, autenticamente tragico, perché, essendo stato abbandonato alla nascita e in seguito adottato da una rigida famiglia calvinista, soffre la sua condizione di ignoranza delle proprie origini. Pur essendo di carnagione chiara, egli cova da sempre il sospetto di avere dentro di sé una parte di sangue nero (in una terra e in un periodo storico – gli inizi del secolo scorso – in cui, ricordiamolo, essere di colore era un’onta irreparabile: basti pensare – per rimanere a Faulkner – ad “Assalonne, Assalonne!”, nel quale Henry Sutpen uccide il fidanzato-fratellastro della sorella, non tanto per impedirgli di commettere un incesto, quanto per la sua non evidente ma “colpevole” negritudine), ma quel che è peggio non ha la possibilità di stabilirlo con certezza. Questa indeterminatezza lo porta a non riuscire a considerarsi né bianco né nero, e a finire per odiare se stesso proprio come un bianco odierebbe, per atavico condizionamento, un suo simile dalla pelle più scura. La solitaria e selvatica scontrosità che lo contraddistingue si accende all’improvviso in fiammate di furiosa violenza, in cui Christmas sembra voler punire negli altri quel peccato originale che subodora in se stesso (e così, adolescente, picchia la prostituta nera nel corso del suo primo convegno carnale, oppure sfida provocatoriamente gli altri, confessando di essere un negro, a fare altrettanto con lui). Christmas è un personaggio dolorosamente scisso, incapace di mettere radici, febbrilmente autodistruttivo. Meglio sarebbe stato per lui avere la certezza di essere di colore, in questo modo almeno riuscirebbe ad essere qualcuno; invece così, in questa fatidica indefinitezza, egli non è nessuno, né bianco tra i bianchi, né nero tra i neri, un individuo sconsolatamente privo di identità, che colora con chiaroscuri violentemente drammatici il romanzo e che Faulkner esplora, scavando ostinatamente nei suoi più minuti e inconfessabili meandri psicanalitici, in una maniera straordinariamente contemporanea. C’è una grandiosità dostojevskijana in questa figura che si consegna fatalisticamente, con un omicidio assurdo e una ancor più assurda fuga, al profondo disprezzo e alla reazione parossisticamente violenta della collettività. C’è anche, più sotterraneamente ma in maniera a mio avviso non meno evidente, una dimensione per così dire cristologica. Le iniziali di Christmas (J. C.) rimandano infatti al nome di Gesù, così come l’età (30 anni) in cui giunge, dopo una anonima esistenza all’interno della famiglia adottiva, a Jefferson, la città in cui vive i fatidici tre anni che si concludono con il “calvario” del linciaggio; il “discepolo” Brown (alias Lucas Burch), che egli accoglie nel suo casotto facendone il socio in affari, lo tradisce inoltre proprio come Giuda, al fine di intascare la taglia di 1.000 dollari messa sul suo capo, mentre addirittura il nonno naturale di Christmas, Doc Hines, un fanatico religioso che nelle sue paranoiche allucinazioni parla a Dio del nipote, si sente da Lui rispondere: “Per ora l’ho segnato col mio marchio, poi lo farò conoscere”. Insomma, “Luce d’agosto” sembra una versione stravolta e sovvertita del Vangelo, dove all’immolazione dell’agnello sacrificale non segue alcuna redenzione, se non quella di una nascita beneaugurale (in un casotto di negri che è un po’ come la stalla dell’evangelica natività) e di una insolita “sacra famiglia” che, nelle pagine conclusive, si incammina verso il futuro senza mezzi e senza meta, ma fiduciosa nell’aiuto di una qualche provvidenza,
Con questo libro Faulkner non firma, probabilmente, il suo opus magnum, ma “Luce d’agosto” rimane lo stesso uno dei suoi romanzi più torbidamente e ambiguamente affascinanti: temi come il sangue, l’ereditarietà familiare, la corruzione morale, la hybris, la violenza, i pregiudizi sociali e razziali sono qui affrontati in maniera lucida e coraggiosamente anticonvenzionale, all’interno di un intreccio enigmatico, contorto e tumultuoso che si disvela lentamente, senza fretta, e poco alla volta, inesorabilmente, avvolge come un sudario i suoi personaggi, tutti quanti mossi da sentimenti, da colpe o da passioni archetipici ed assoluti, come se ci trovassimo di fronte non già a una storia ambientata un secolo fa nel profondo Sud degli Stati Uniti, ma a una tragedia greca o a un dramma elisabettiano.
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Del celebre autore conosco solo "Mentre morivo". Un libro letterariamente molto riuscito, ma mi son fatto l'idea che questo scrittore non sia molto nelle mie corde.
Sono consapevole che è considerato tra i massimi esponenti della letteratura americana. E ne riconosco il merito. C'è però un margine di soggettività nelle preferenze. L'importante penso sia scindere i due aspetti; per questo ho tenuto a precisare.
l’aspetto “cristologico” mi era totalmente sfuggito ed aggiunge fascino e complessità all’opera
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