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L'INFELICE ERRARE DEL GABBIERE
“E’ doveroso lanciarsi alla scoperta di nuove città. Ci attendono razze generose. I pigmei meticolosi. I grassocci e imberbi indiani della selva, asessuati e bianchi come i serpenti delle paludi. Gli abitanti delle piane più alte del mondo, stupiti dinanzi al fremito della neve. I deboli abitanti delle distese ghiacciate. Le guide delle greggi. Coloro che vivono in mezzo al mare da tanti secoli e che nessuno conosce perché viaggiano sempre in direzione ostinata e contraria alla nostra. Da loro dipende l’ultima goccia di splendore.
Restano ancora da scoprire luoghi importanti della Terra: i grandi condotti da cui respira l’oceano, le spiagge dove muoiono i fiumi che non vanno da nessuna parte, i boschi dove nasce il legno di cui è fatta la gola dei grilli, il posto dove vanno a morire le farfalle scure dalle grandi ali lanute con il colore acre dell’erba secca del peccato.
Bisogna cercare e inventare di nuovo. Resta ancora il tempo. Ben poco, è vero, ma è doveroso approfittarne.” (“I viaggi”)
Il personaggio di Maqroll il Gabbiere, vero e proprio alter ego di Alvaro Mutis, è uno strano Proteo letterario, che si transustanzia nelle più disparate opere del suo autore, poesie, racconti e romanzi, sia in prima che in terza persona, ma è forse con “La Neve dell’Ammiraglio” che questa figura di ostinato “cercatore di assoluto”, di insaziabile viaggiatore, di sfortunato eroe del fallimento e delle sfide perse in partenza, esso viene più magistralmente definito. In questo diario, nel quale Maqroll registra tutto il suo viaggio alla volta delle fantomatiche segherie ai piedi della Cordigliera, dagli enigmatici sogni notturni agli incidenti di percorso, dal carattere dei compagni che navigano con lui sulla barca al paesaggio che gli sfila davanti mentre risale per più di tre mesi la corrente dello Xurandò, troviamo tutte quelle caratteristiche che lo rendono uno dei personaggi più originali ed emblematici della letteratura del Novecento: l’amaro disincanto, la resilienza di fronte alle prove del destino, l’”ardente vocazione di felicità costantemente tradita, quotidianamente smarrita”, il senso di straniamento nei confronti di una realtà a lui fatalmente irriducibile. Mutis ha coniato per il Gabbiere un termine stupendo, “disperanza”, che non deve essere confuso – come si potrebbe fare di primo acchito – con quello di “disperazione”. “La prima condizione della disperanza - leggiamo nella postfazione di "Storie della disperanza" - è la lucidità. L'una e l'altra si completano, tra di loro si creano e si affermano. A maggiore lucidità maggiore disperanza, e a maggiore disperanza maggiore possibilità di essere lucidi. […] La seconda condizione della disperanza è l’incomunicabilità. [...] La disperanza s’intuisce, si vive interiormente finché diventa materia stessa dell’essere, sostanza che definisce le manifestazioni, gli impulsi e le azioni della persona, ma che gli altri interpreteranno sempre come indifferenza, alienazione o semplice follia. La terza caratteristica di chi vive nella disperanza è la solitudine. Solitudine nata da una parte dall’incomunicabilità e, dall’altra, dalla difficoltà di stare accanto a chi vive, ama, crea e gode senza speranza. [...] La quarta condizione della disperanza è il suo rapporto ravvicinato con la morte. [...] Infine il nostro eroe non è privo di speranza, o almeno di ciò che in essa si confonde con il breve entusiasmo per il godimento di effimere, probabili gioie; anzi, in questo modo egli ritrova quelle sottili ragioni per continuare a vivere.” Ne “La Neve dell’Ammiraglio” tutti questi aspetti possono facilmente essere rintracciati: dalla lucidità che emerge dalle implacabili riflessioni, dai corrosivi aforismi, dal continuo sillogizzare sulla propria esistenza, alla incomunicabilità che emerge da una lingua “usata più per nascondere che per comunicare” o dai radi dialoghi con il Capitano, che celano sempre qualcosa di enigmatico e di imperscrutabile; dalla solitudine, laddove i rari amici, uomini veri che “sanno andare per il mondo tra il maligno e balordo drappello dei loro simili”, sono lontani e irraggiungibili oppure si riconoscono, come nel caso di quell’anima gemella che è il Capitano, quando ormai è troppo tardi, alla presenza costante della morte, quella con cui bisogna convivere ad ogni istante del proprio viaggio, non solo assistendo impotenti a quella degli altri (la morte del soldato sulla barca, il suicidio del Capitano), ma imparando a “percepire con la pienezza della nostra coscienza e dei nostri sensi la prossimità immediata e irrefutabile del proprio perire”, “a costruirla dentro di sé con passo irrimediabile”, “la nostra stessa morte, quella che ci appartiene davvero, che aspetta che sappiamo riconoscerla e adottarla”. Ma è soprattutto l’assenza di rassegnazione che connota maggiormente la disperanza di Maqroll e che, a mio avviso, lo rende molto simili ai personaggi esistenzialisti di Camus, e in particolar modo a quel Sisifo mai domo di fronte all’assurdo della vita. Maqroll è intimamente consapevole che il suo viaggio all’interno della selva verso le segherie, per comprare legname da rivendere a prezzi più alti nelle città della costa, sarà un fallimento o, peggio, un’impresa “di una stupidità clamorosa”, ma ciononostante vi si abbandona, con una fatalistica accettazione del proprio destino, con una autolesionistica imperturbabilità, intuendo che è l’unico modo per cercare di sconfiggere il “tedium vitae” e di “salvarsi dal supplizio di morire con la certezza di aver abitato un limbo, alle spalle del superbo spettacolo dei vivi”.
C’è un profondo dissidio nel Gabbiere tra l’aspirazione alla felicità, rappresentata dalla Neve dell’Ammiraglio, un emporio sull’altopiano dove ha vissuto un breve ma intenso interludio di tranquillità e di amore con Flor Estevez, una donna focosa e sensuale “che scuote la vita per le spalle sino ad obbligarla a restituire ciò che le chiede”, e la compulsiva e masochistica inclinazione per le cause votate irrevocabilmente alla sconfitta. La Neve dell’Ammiraglio e la Cordigliera rappresentano in un certo senso l’Eden perduto, da cui Maqroll si è volontariamente esiliato (e a cui non può che ripensare con dolorosa e struggente nostalgia), per dannarsi nell’inferno della selva (“un molle inferno in decomposizione”, che provoca danni irreparabili nel fisico e nello spirito degli esseri umani che vi si avventurano). Il peccato originale del Gabbiere, la sua hybris, che lo condanna a vagare incessantemente per il mondo come l’Ebreo errante, è quello di aver preteso “di sfidare il caso, di sondarne i limiti”, con inane testardaggine e cieca ingenuità, alla stregua di un Ulisse sempre più stanco e disilluso, senza più alcuna Penelope ad attenderlo alla fine del viaggio. A Maqroll non resta che accontentarsi degli avanzi di effimeri piaceri e cercare ossessivamente nel proprio passato quegli impercettibili momenti che hanno cambiato a sua insaputa, come beffarde sliding doors, il proprio destino. C’è un bellissimo passo nel romanzo in cui Maqroll si rende conto che in tutti gli anni passati è andata scorrendo al suo fianco un’altra vita, una sorta di borgesiana vita parallela fatta di tutte le svolte del cammino che ha rifiutato, di tutte le vie d’uscita che non ha preso, di tutte le occasioni che ha dilapidato, e conclude pensando che nell’ora della morte “sarà quell’altra vita a scorre davanti agli occhi con il dolore di qualcosa che si è perso e sprecato del tutto e non questa, quella reale e compiuta”. Non c’è mai però un vero e proprio rimpianto in Maqroll, mai un’autentica nostalgia, perché in lui prevale in fondo la coscienza che, per quante sorprese e per quanti sconvolgimenti possa riservare la vita, alla fine “tutto ciò che ci accade ha lo stesso sembiante, identica origine”.
La monotonia, l’abulia, l’inerzia (“la mia consuetudine con il nulla”) prendono ben presto il sopravvento sulla vita del Gabbiere, conscio nel proprio costante e inesorabile disinganno di stare inseguendo un vano miraggio e che quindi “la cosa migliore è lasciare che tutto accada come deve essere”, e tutto ciò si riflette anche sulla trama del romanzo, il cui interesse non risiede tanto in un climax, in una progressione narrativa, che, anche nei momenti più avventurosi (come il superamento delle rapide), non si accende mai veramente, quanto in quelle pagine di incantata, sonnolenta e un po’ stordita sospensione (quando sembra anche al lettore di sentire solamente il vociare degli uccelli e il suono asmatico del motore) nelle quali l’indifferente superficie della realtà nasconde, dietro a un sottile e impalpabile velo, il mistero più insondabile, l’orrore più agghiacciante. Procedere in questo universo inquietante e indecifrabile, irrimediabilmente estraneo ad ogni umano tentativo di comprensione e di razionalizzazione, è per Maqroll una sfida davvero titanica da superare, soprattutto se si vuole arrivare alla meta “con tutti i tuoi sogni intatti” (come recita una bellissima poesia di Mutis). E’ per questo che, nonostante i debiti letterari con personaggi come il Marlow di “Cuore di tenebra” o il Bernardo Soares de “Il libro dell’inquietudine” (a cui aggiungerei anche il Larsen, alias Raccattacadaveri, di Onetti, per la comune, ineluttabile, tendenza a imbarcarsi- in progetti assurdi e senza alcuna possibilità di successo), quello del Gabbiere è destinato a stagliarsi nel panorama della letteratura moderna come l’emblema di un incoercibile anelito di libertà e di idealismo, molto più e molto meglio dei paladini della beat generation. “Lei è immortale, Gabbiere”, dice a un certo punto il Capitano a Maqroll, e con questa frase egli sembra vaticinare quella dimensione mitica che l’eroe di Mutis ha saputo acquisire con gli anni e che, nella fittizia proliferazione di testi che lo riguardano, ha saputo farsi addirittura beffe della cronologia (il romanzo seguente, “Ilona arriva con la pioggia”, racconta di un Maqroll più giovane di quello de “La Neve dell’Ammiraglio”, e in “Un bel morir” la morte del protagonista non preclude affatto che egli compaia nuovamente in racconti successivi), come quei poemi epici che nell’antichità venivano tramandati oralmente e che ponevano i loro memorabili personaggi al di fuori dell’azione corruttrice del tempo e della Storia, immortali appunto.
“Segui le navi. […] Non ti fermare. Evita persino il più umile ancoraggio. […] Rifiuta ogni sponda.”
Indicazioni utili
"Il cantiere" di Juan Carlos Onetti
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