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Un'eterna nostalgia del presente
L’insostenibile leggerezza dell’essere di Milan Kundera è stato per me un libro (non senza vergogna) di cui ho sempre saputo l’esistenza e poco altro. Un po’ come il filetto alla Wellington. Esiste, ma esattamente cos’è? E se ora questo filetto dal sapore anglosassone continua a rimanermi un mistero, Kundera invece ha iniziato a svelarsi e non potevo farmi regalo più grande.
Ambientato alla fine degli anni sessanta - tra la Primavera praghese e la successiva invasione sovietica - il romanzo, attraverso le ossessioni e fragilità dei suoi protagonisti (Tomáš, Tereza, Franz, Sabina), si propone di dipingere un perfetto quadro di quella che è la più misteriosa e ambigua di tutte le opposizioni umane: l’opposizione pesante-leggero.
«Davvero la pesantezza è terribile e la leggerezza è meravigliosa?»
È infatti questo l’eterno dilemma che pagina dopo pagina si insinua all’interno della mente del quartetto amoroso, generatosi da una parte per via di sei ridicole coincidenze (Tomáš-Tereza) e dall’altra a causa di quell’inevitabile attrazione che sgorga fra due vocabolari opposti (Franz-Sabina).
In poco più di 300 pagine si ha la possibilità di cogliere il vero andamento della vita umana, nonché del suo tempo. Un tempo che non ruota in cerchio, ma avanza veloce in linea retta; d’altronde «è per questo che l’uomo non può essere felice, perché la felicità è desiderio di ripetizione».
Ed ecco allora che conclusa la lettura una nuova amara consapevolezza («Es muss sein») batte nelle tempie sempre più chiara: leggerezza e pesantezza son destinate a fondersi in un’eterna nostalgia del presente e, alla fine, tutto quello che si sceglie e apprezza come leggero non può far altro che rivelare - prima o poi - il suo peso insostenibile.