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Ferire per non amare
C’è un passo molto acuto nell’”Idiota” di Dostoevskij nel quale l’autore fa amaramente notare che in fondo, chi ama tutti, non ama davvero nessuno. Ho pensato a lungo a questa frase mentre leggevo questo fragile libro di Baldwin, forse anche impropriamente. “La stanza di Giovanni” è un libro sul dolore che può arrecare chi non vuole ferire, chi non è pronto ad andare fino in fondo a se stesso, chi si scopre troppo esile, tra i vasi di ferro, per vincere la propria ritrosia. Un libro, ci avverte l’autore, che vuole esplorare cosa succede quando si ha “paura di amare”. E al centro di tutto questa stanza della tortura, la stanza di Giovanni, il giovane cameriere italiano incontrato in un pub gay da David, americano in fuga dal vecchio mondo per trovare se stesso in una Parigi in cui ci si deve perdere per trovare la propria natura. Una stanza che accoglie questi due corpi, così soli, così disperati l’uno dell’altro, una stanza che è tutta una vita, rimescolata in onde di desiderio e contrappunti di disincanto, ore di estasi e minuti di angoscia. Un stanza che diventa il perimetro asfissiante di una vita corsa troppo in fretta mentre Hella, fidanzata di David, è in Spagna, confini di mattoni affastellati troppo di corsa, incollati da una calce troppo liquida. David e Giovanni si guardano e toccano, ma vivono su mondi diversi, su universi senza galassie in comune: il primo troppo spaventato di abbandonare la sua fidanzata, la sua vita normale, inchiodato dalla nuda voce della carne, il secondo troppo dipendente da David, troppo instabile, malato, disperato. David e Giovanni, un passo avanti insieme verso l’abisso, circondati da vecchi papponi e uomini disgustosi pronti a comprare un corpo più giovane con la promessa di qualche soldo, di un lavoro.
È una storia come tante quella di David e Giovanni, di tanti altri romanzi, ma nobilitata dalla prosa meravigliosamente pura di Baldwin, tanto delicata quanto precisa, brillante come un manto di stelle in una notte cristallina, sospesa senza essere reticente, equilibrata senza essere stantia, dolorosa quando la vita non può fare a meno di ferire, luminosa quando si può respirare per un istante. E quello che già colpisce di questo romanzo è l’anima dell’autore, impressa in filigrana tra i dialoghi e i martiri, nei pensieri che fuggono: un libro che se non è perfetto, è perché sconta un’urgenza espressiva assoluta, destabilizzante, bruciante, a tratti caustica. Un libro in cui credo l’autore abbia messo molto di sé e della propria vita, da accogliere come la confessione di un amico e che ci ricorda come spesso una stanza non è solo uno spazio, ma una prigione mentale e come attraversare quella soglia è un atto di coraggio che può cambiare una vita. E chi ha dovuto attraversa la soglia della sua stanza, lasciare quella porta alle spalle, sa che il dolore di quel passo può strappare il cuore dal petto.
“Mi fece pensare, pensare a casa - forse la casa non è un luogo, ma semplicemente una condizione irrevocabile."
Indicazioni utili
Tondelli, "Camere separate"
Yanagihara, "Una vita come tante"
Commenti
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Non ho letto niente di Baldwin, ma è un autore che conosco in virtù di trasposizioni cinematografiche come "I am not your negro" e "Se la strada potesse parlare".
Il primo è stato candidato al premio Oscar per il miglior documentario nel 2017 e si avvale della narrazione di Samuel L. Jackson. È basato su "Remember this house", opera incompleta in cui Baldwin ha omaggiato Martin Luther King, Malcolm X e Medgar Evers.
Il secondo è un film del 2018, anch'esso candidato a numerosi premi, per la regia di Barry Jenkins (autore di "Moonlight"). Ed è stato tratto dall'omonimo romanzo di Baldwin.
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