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Amélie torna in Giappone
«Avevo trovato la mia vocazione. Il mio spirito sbocciava con quel lavoro semplice, utile, umano e propizio alla contemplazione. Mi sarebbe piaciuto farlo tutta la vita.»
Con “Stupore e tremori” conosciamo una Amélie Nothomb ventiduenne e alle prime prese con il mondo del lavoro e in particolare nipponico. Con massimo rispetto e riserbo, la giovane donna, tornata a vivere in Giappone, luogo ove è nata e cresciuta sino all’età di cinque anni, riesce a realizzare il suo sogno di poter prestare il suo impegno presso una società giapponese che la assume con un contratto di dodici mesi. Il sogno, tuttavia, ben presto si rivela essere ben diverso dalle aspettative e la realtà con la quale ella trova a doversi confrontare è tutto fuorché semplice o rosea. Amélie viene destinata ai lavori più degradanti e umili sino a raggiungere quello che è l’apice dell’avvilente. Non si abbatte, però. Comprende le ragioni di quelle decisioni che vengono prese nei suoi confronti e ha verso di loro, così come verso i suoi superiori, un atteggiamento di massimo e profondo rispetto, caratteristica questa che mai in lei viene meno. E se da un lato a una prima analisi l’attenzione si sofferma su quel che è l’aspetto proprio delle condizioni lavorative giapponesi, a una analisi più precisa, minuziosa e anche introspettiva, l’occhio si spinge oltre arrivando a prendere consapevolezza di quell’aspetto più intimo e umano che invece caratterizza la donna.
«Ogni esistenza vive, un giorno, quel trauma primordiale che divide la sua vita in un prima e in un dopo e il cui ricordo anche furtivo basta a creare un terrore irrazionale, inumano e inguaribile.»
È in questo, a mio modesto avviso, che si snoda l’intero componimento. Ella ci consente di entrare maggiormente in sintonia con quello che è il suo mondo e quella che è la sua psiche, gioca con il “vero” e non vero tanto che chi legge è chiamato a chiedersi quanto effettivamente ci sia di verità e quanto non in quel che ha tra le mani eppure, al contempo, resta affascinato proprio dagli occhi con i quali si guarda al lavoro e alla vita. C’è inoltre tanta filosofia in questo scritto. Tanta filosofia e tanto tanto di letteratura classica e classica contemporanea. Se da un lato ho potuto ravvisare aspetti inerenti a “Il processo” di Kafka, non sono mancate altresì riflessioni suscitate da quelli riportati alla mente da similitudini con “La metamorfosi”. E molti altri ancora sono gli spunti letterari e psicologici che la scrittrice belga porta in superficie.
«Questa constatazione mi richiamò alla mente il detto di André Maurois: “Non dire troppo male di te stesso: finiranno per crederci”.»
Non mi sento di definire questo titolo un elaborato di denuncia sociale come ho letto su altre recensioni online, non ne ha l’impostazione, per me. Per quanto i tratti siano crudi e duri verso i giapponesi, il modo in cui sono esposti fanno evincere quanto effettivamente essi siano riportati all’attenzione quali elementi per ricostruire i tratti salienti di un mondo a noi fortemente lontano e per mezzo dei quali ridar vita a una dimensione che possa essere tridimensionale. Lo stesso titolo, ha un suo significato più intimo che arriva, resta e che spiega molto di quel che poi ne sarà il contenuto.
Una autrice a cui mi sto avvicinando piano piano e che sino ad oggi è riuscita a sorprendermi. Un titolo di cui consiglio la lettura perché intenso per temi e contenuti ma a cui credo sia meglio avvicinarsi dopo aver meglio conosciuto la Nothomb.
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