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FARSA AL VETRIOLO
“Perché non lasci i soldi ai figli, non è così che vanno le cose. Non lasci i soldi ai figli, lasci i figli ai soldi”
Il titolo italiano del terzo romanzo di William Gaddis farebbe pensare di primo acchito a una storia alla Edgar Allan Poe o alla H.P. Lovecraft, con le loro atmosfere allucinate, tenebrose e in bilico tra realtà e soprannaturale. In realtà “Gotico americano” non ha niente a che vedere con tutto questo, ma allude semplicemente a uno stile architettonico diffuso negli Stati Uniti del XIX secolo, soprattutto negli stati del Nord-Est, che riprendeva in forme romanticamente bizzarre lo stile gotico europeo. Quelle che da lontano sembravano edifici di lusso, con finestroni ad arco a sesto acuto, tetti ripidamente spioventi e in alcuni casi anche cupole e torrette, più da vicino rivelavano la loro ben più modesta struttura, con materiali dozzinali che prendevano il posto della pietra o del ferro battuto. “Tutta quell'ispirazione del gotico medievale, ma questi poveri diavoli non l'avevano la pietra e il ferro battuto. Tutto quello che avevano erano i vecchi materiali, semplici e affidabili, il legno e i martelli e le seghe e il loro goffo ingegno nel ridurre queste grandiose visioni lasciate dai maestri a una scala umana con le loro piccole invenzioni, quei dardi verticali che spuntano dalle grondaie e, sotto, quella fila di occhi di bue […] Un centone di presunzioni, prestiti, inganni, l'interno è un guazzabuglio di buone intenzioni, come un ultimo ridicolo sforzo di fare una cosa che val la pena di fare anche su una scala così piccola”. In questo modo si presenta anche la casa dove è ambientata la vicenda di “Gotico americano”, la quale assurge al ruolo di vera e propria protagonista al pari dei personaggi in carne e ossa che vi abitano o la frequentano, e che Gaddis ha il merito di trasformare, con la sua accozzaglia di pretenziosi elementi decorativi e la sua stravagante e ostentata asimmetria, in una azzeccata metafora dell’intera società americana: gli stucchi che si sbriciolano, le nicchie macchiate di umidità, le verande mezze marce rimandano infatti a una nazione che apparentemente sembra florida e prosperosa, ma ad una più attenta osservazione si rivela irrimediabilmente in decadenza. All’interno della fatiscente magione domina l’entropia, che è un po’ il segno distintivo, il marchio di fabbrica dei romanzi di Gaddis: stanze stracolme di mobili e oggetti accatastati l’uno sull’altro, apparecchi non funzionanti o che si rompono in continuazione, la posta che si riversa ogni giorno dal mondo esterno in quantità talmente esorbitante (fatture, lettere, biglietti, inviti, opuscoli, riviste, ecc.) da non poter essere evasa e che pertanto si accumula sui tavoli e sulle mensole in maniera incontrollabile. Gaddis sembra prefigurare, con lucida e profetica chiaroveggenza, gli effetti sulla società contemporanea provocati dall’avvento di internet e dei social media, in cui a un massimo di informazioni non corrisponde un livello altrettanto grande di conoscenze e di comprensione della realtà. Inoltre, a riempire e ipostatizzare questo caotico disordine, vi sono i dialoghi incessanti, interminabili, estenuanti dei personaggi, in cui chi parla e chi ascolta sembrano sempre su lunghezze d’onda diverse, tanta è l’incapacità di capirsi e di comunicare (scene come quella di Paul che si sfoga velenosamente nei confronti di tutti coloro che stanno mettendo i bastoni tra le ruote dei suoi affari, ed Elizabeth che, beckettianamente, non trova di meglio che chiedergli cosa voglia per cena, sono la norma). Paul e Billy, Paul e la moglie, McCandless e Lester sembrano sempre parlare ognuno per conto proprio, e come se ciò non bastasse vengono continuamente interrotti dal telefono che, per tutta la durata del romanzo, petulante e inopportuno, non smette mai di squillare. Tutto ciò crea delle sequenze davvero esilaranti, ma a poco a poco l’atmosfera del romanzo si fa via via più plumbea e ansiogena: la farsa si trasforma progressivamente, impercettibilmente, in dramma, ed è un dramma nerissimo quello di “Gotico americano”, una tragedia di proporzioni elisabettiane.
Non mi è mai capitato di vedere Gaddis così caustico e polemico. La sua satira si dispiega contro il capitalismo e la religione (e questa non è una novità per coloro che hanno già avuto modo di frequentare la sua cinica e irriverente bibliografia), ma anche contro la politica (il finto pacifismo di certe amministrazioni che in realtà nasconde bieche velleità imperialistiche), la famiglia (“non è vero che la guerra è la politica esercitata con altri mezzi, è la famiglia esercitata con altri mezzi”), gli uomini del Sud (“un branco di sconfitti dove gli aristocratici decaduti s'incontrano al caffè per lamentarsi come se fossero i cugini poveri che danno al ramo ricco della famiglia, su nel nord, la colpa di avergli rubato il diritto di primogenitura” e “che tengono vivo il ricordo fino a quando qualcuno gli offrirà una guerra che possano vincere” e “che restauri la dignità nazionale, perché loro hanno perso la loro cent'anni fa”), le nuove generazioni (“è la storia più vecchia del mondo perdio, la nuova generazione dà alla vecchia la colpa del casino che eredita, e ci mettono in un sol fascio perché tutto ciò che vedono è quello che siamo diventati, quelli ti aspettano al varco, un passo falso e ti sono addosso, mostra di avere il minimo interesse personale e ti accuseranno di esserti tradito, di averli traditi, di esserti venduto”), e molto altro ancora. Le invettive di Gaddis contro il terzomondismo (i prestiti ai paesi in via di sviluppo che si trasformano in lucrose commesse a beneficio delle aziende di famiglia degli esponenti del governo) o contro le teorie creazioniste (“Questi idioti soddisfatti con i loro sorrisi ipocriti, questi non sopportano l'idea di essere discesi da quella banda del lago Rodolfo che andava in giro picchiando qua e là le sue mazze di pietra nel tentativo d'imparare qualcosa, no, loro credono che Dio li abbia messi al mondo con i loro poveri vestiti e le loro sudicie cravatte, a sua immagine, quasi metà del paese, lo sapevi? quasi metà degli abitanti di questo paese, perdio, credono che l'uomo sia stato creato otto o diecimila anni fa pressappoco com'è oggi […] vengono giù da Malachia contando tutti quei "generò", "generò", "generò", e la creazione ebbe luogo il ventisei di ottobre del quattromilaquattrocento avanti Cristo alle nove antimeridiane, ecco quello che chiamano il metodo scientifico”), queste invettive mettono il dito nella piaga in quelli che sono i peccati mortali della società contemporanea, la corruzione, l’ipocrisia e, soprattutto, la stupidità, quella stupidità che è “un’abitudine maledettamente difficile da vincere e che “batte l’ignoranza” in quanto “la stupidità è la deliberata cultura dell’ignoranza”, “la dannata convinzione di essere nel giusto”. A incarnare questa ideologia nel romanzo è soprattutto McCandless che, in quanto studioso e occasionalmente anche scrittore, sembra essere proprio l’alter ego dell’autore. In realtà in “Gotico americano” non c’è alcun eroe positivo, e alla fine la corrusca indignazione di McCandless si rivela sterile e innocua, il suo disprezzo, privo di una reale volontà di cambiare le cose, non meno spregevole dell’arrivismo e dell’ipocrisia degli altri personaggi, o forse anche peggiore, dal momento che egli è privo di qualsiasi illusione, ancorché sbagliata (“sei tu che vuoi l’Apocalisse, Armageddon, il sole che si spegne e il mare che diventa di sangue, non vedi l’ora, no? […] perché disprezzi la loro, non la loro stupidità no, le loro speranze, perché non ne hai, perché non te ne resta neanche una”). Il pessimismo di Gaddis tocca in “Gotico americano” il suo apice. Nulla si salva se non, forse, quel vecchietto che i personaggi osservano dalla finestra e che ogni giorno, instancabilmente e quasi senza motivo, come obbedendo a un incoercibile istinto vitale, si trascina nel giardino confinante per pulire e mettere in ordine. C’è una profonda ambiguità in “Gotico americano”, che sconcerta e destabilizza il lettore. Ad esempio, Paul e Billy si odiano e si combattono per tutto il libro, ma Elizabeth fa giustamente notare che i due in fondo si assomigliano (“a volte io non riesco quasi a distinguervi, te e Paul, perché tu ti esprimi nello stesso modo, esattamente nello stesso modo, l'unica differenza è che lui dice: il tuo maledetto fratello, e tu dici: cazzo Paul, ma è la stessa cosa, se chiudessi gli occhi potrei confondervi l'uno con l'altro, forse è per questo che l'ho sposato”). Niente è come sembra. C’è sempre “una linea sottilissima tra la verità e quello che succede veramente, e in questo impercettibile scarto, in questo iato, Gaddis si insinua da par suo per portare allo scoperto e denunciare le contraddizioni dell’american way of life.
Leggere un nuovo romanzo di Gaddis è un’attività che richiama inevitabilmente alla mente i suoi precedenti lavori, perché il suo universo è fatto di tematiche, ossessioni e stilemi che si reiterano ogni volta con ammirevole coerenza. Quello che un critico statunitense, recensendo proprio “Gotico americano”, un giorno definì argutamente “lo scrittore famoso per non essere abbastanza famoso” sperimenta però qui qualcosa di nuovo, ossia un impianto di natura prettamente teatrale. L’unità di luogo, di tempo e di azione, insieme a un numero di pagine inferiore a quello, imponente, delle altre sue opere, fanno sì che “Gotico americano” potrebbe essere addirittura portato con pochissimi accorgimenti su un palcoscenico, ed è a mio parere un vero peccato che Gaddis non abbia mai voluto misurarsi direttamente con questa particolare espressione artistica perché la sua virtuosistica abilità nella costruzione dei dialoghi, che rende i suoi romanzi così irresistibili e originali, lo avrebbe potuto far diventare un Tennessee Williams all’acido muriatico o un Martin McDonagh ancor più cinico e grottesco. Oltre a essere il suo romanzo più teatrale, “Gotico americano” è anche quello più agevole e accessibile. Il suo stile è fatto sempre di dialoghi (interpuntati da brevi e sporadici intermezzi lirici) in cui non viene mai esplicitato chi sta parlando, e oltretutto nel corso delle frequenti conversazioni telefoniche chi è all’altro capo del filo non si sente mai e le sue parole possono essere desunte solo dal tenore della risposta dell’interlocutore, ma il minor numero di personaggi rende il tutto di più facile lettura (certe scene de “Le perizie” o di “JR”, con numerosi personaggi contemporaneamente in scena, erano di ben altra, quasi inconcepibile, complessità). Certo, il plot narrativo (una ingarbugliata storia di eredità contese e di spionaggio, di sette religiose e di concessioni minerarie) è abbastanza criptico e di ostica comprensione, ma tutto sommato “Gotico americano” è un romanzo in cui contano le atmosfere e i temi trattati assai più che i dettagli della trama. Da un punto di vista artistico, “Gotico americano” non riesce a raggiungere le vette de “Le perizie “ e di “JR”, ma questo paragone non può essere considerato un elemento a suo discapito, perché stiamo pur sempre parlando di due dei massimi capolavori della letteratura del Novecento. A me è parso per esempio che Gaddis sia stato qui meno allusivo e più polemico di quanto ci aveva abituati, come se si fosse fatto coinvolgere troppo direttamente dall’oggetto delle sue invettive e fosse stato invece meno capace di mantenere una maggiore e più opportuna distanza critica, come se lui, che prima sembrava guardare i suoi personaggi come attraverso un cannocchiale rovesciato, qui avesse scelto di usare una lente di ingrandimento. Lo spirito dell’opera (quello che fa dire a Elizabeth “Io credo che si scriva perché le cose le cose non sono andate come avrebbero dovuto”) è comunque quello dei momenti migliori, battagliero e militante, beffardo e provocatore, ancorché conscio che alla fine la realtà prosaica e volgare non ha alternative e antidoti che gli si si possano validamente opporre. Quella che Gaddis propone in “Gotico americano”, con una sagacia e un acume che hanno pochi eguali nella cultura (o forse sarebbe meglio dire controcultura) contemporanea, è un’ardita operazione, molto politicamente scorretta, di immersione nei più oscuri e sordidi meccanismi ideologici, economici e finanziari che regolano, spesso a nostra insaputa, le nostre vite, al fine di trarre una morale all’insegna di un salutare scetticismo. “Perché deve essere sempre solo questione di soldi?”, chiede a un certo punto Elizabeth a Paul, e questa domanda sembra provenire dritta dritta da “JR”, come se nulla da allora fosse cambiato anche se nel frattempo sono passati ben dieci anni. La risposta, tautologicamente, non può essere che una e una sola: “Perché è sempre questione di soldi”.
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Ti confesso che non ho mai letto Gaddis ma sono sempre stato tentato. Il tuo commento mi tenta e mi spaventa anche: appena hai parlato della “casa protagonista” mi è venuto in mente le Notti Bianche di Dostoevkij, il grande scrittore russo nella sua opera però faceva un’elegia della sua città, qui invece mi sembra si tratta di una graffiante critica alla civiltà occidentale. Questo mi ha tentato, poi però ho letto dell’ “entropia di Gaddis” e ho subito pensato a Pynchon... e un brivido di terrore mi è corso lungo la schiena: è stilisticamente complesso come Pynchon o be... più comprensibile?
Mi sembra comunque un grande romanzo, che tratta di molte tematiche. Ritieni sia quello giusto per iniziare a leggere Gaddis?
Grazie e complimenti ancora
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