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Scemi di guerra
L’opera di Philip Roth, me ne convinco sempre più, è un unico grande disegno, una sorta di canovaccio che l’autore ha scritto nel tempo, ampliando la sua visione della vita ma sempre dentro alcuni temi ben definiti, i punti focali della sua esistenza. L’appartenenza etnica, l’appartenenza culturale, l’appartenenza geografica, quella sociale, e la totale, assoluta, mancanza di appartenenza a una qualsivoglia classificazione. Non c’è niente che possa imbrigliarlo, né lui, né tantomeno i suoi personaggi, piccole schegge impazzite di un male che qui, in questo grande romanzo, sono accomunate dal fatto di essere ontologicamente il male stesso. Un’opera intensa, amara come al solito, ma viva e perfettamente capace di restituire quell’alone di incompiutezza che gravita, tragicamente, sui suoi personaggi migliori e di pari passo sull’uomo in sé. Lo svedese, esempio brillante di una vita apparentemente brillante, un’identità frantumata, Sabbath, una ridicola controfigura di quello che avrebbe potuto essere un uomo e ora il brillante professore Coleman Silk, burlato dal logos, pensiero e parola che lo incarnano a finzione di se stesso. Un uomo nero che si finge bianco, che recita la sua esistenza sul filo di lama, una lama tagliente che potrebbe fendere la sua carne in ogni momento. Non solo personaggi tragici però, come si sa, nel caso di Seymour Levov e dello stesso Coleman Silk, l’equilibrio è ripristinato con l’espediente del ponderato narratore, colui che veste il ruolo del testimone degli eventi e di novello tedoforo, capace di rischiarare i punti bui di un’esistenza mentre la consegna ai lettori per mano del suo stesso inventore. Nathan Zuckerman, l’alter ego di Philiph Roth, è il nostro mentore ancora una volta, è colui che ci guiderà a dare un significato all’esistenza appena rappresentata. L’epilogo di questo romanzo infatti , pur generando gli stessi quesiti suscitati dall’esperienza parainfernale di Sabbath, lascia il lettore in uno stato completamente diverso, nell’accettazione di un destino terribile, crudele.
Consapevole di non aver affatto parlato del romanzo, lo consegno ai futuri lettori, totalmente appagata da una lettura che ancora una volta offre una visione disincantata dell’uomo, dell’America, del suo falso mito delle “belle sorti e progressive” che si frantumano nell’incapacità di un sistema di istruzione lacunoso e deficitario, nel falso mito del melting polt e nella totale inadeguatezza della sua classe politica. Roth chiama Pirandello, per la parte squisitamente filosofica, come America chiama Italia per il contesto socio-culturale e politico. Mai così vicini, a noi manca il Vietnam ma i ragazzi del ’99 non furono poi tanto lontani dagli americani quando divennero “scemi di guerra”.
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