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PLAY IT ONCE, MICKEY
“Sì, sì, sì, provava una incontrollabile tenerezza nei confronti della propria merdosissima vita. E una ridicola brama di averne ancora. Ancora sconfitte! Ancora delusioni! Ancora inganni! Ancora solitudine! Ancora artrite! […] Ancora disastrosi impegolamenti in qualsiasi cosa. Per la pura sensazione di sentirsi tumultuosamente vivi, non c'è niente di meglio che il lato canagliesco dell'esistenza. Non sarò mai stato un idolo delle platee, ma dite di me quel che volete, la mia è stata una vita veramente umana!”
Questa è la storia di Mickey Sabbath, “puttaniere, seduttore, sodomizzatore e sfruttatore di donne, distruttore della morale, corruttore della gioventù”, secondo il sardonico ritratto che, in una sorta di necrologio anticipato, il protagonista fa di se stesso. Sabbath è un personaggio che fin dall’inizio appare agli occhi del lettore nella sua veste più sgradevole, un essere ributtante, libertino, scandaloso, immorale (“se non ti interessano le più vistose depravazioni del genere umano, allora cosa diavolo ci fai a questo mondo?”), che si dedica “ad accumulare l’antipatia di chiunque come se si trattasse di una battaglia per difendere i propri diritti”. Una sorta di Cyrano di Bergerac in negativo, quindi, con la stessa ossessione di spiacere dell’eroe di Rostand (“non aveva mai perso quel semplice gusto… di mettere a disagio le persone, soprattutto quelle che erano a loro agio”), ma senza la sua nobiltà e grandezza d’animo; ma anche una versione deformata e grottesca di Don Giovanni, completamente assorbito com’è nella ricerca compulsiva di ogni occasione possibile di godimento sensuale, con qualsiasi donna gli capiti a tiro. Insofferente di lacci e laccioli imposti dal buon gusto borghese e dalle convenzioni sociali, Sabbath è una bomba ad orologeria impazzita, pronta a far esplodere ad ogni istante le fragili impalcature della morale corrente. All’amante Drenka, che lo implora di esserle fedele, Sabbath risponde sostenendo che la fedeltà non è altro che “puritanesimo repressivo […] che cerca di imporre agli altri le proprie norme reprimendo moralisticamente il lato satanico del sesso” e che “non esiste punizione troppo dura per il pazzo criminale che se ne è uscito fuori con l’idea della fedeltà”. Eppure, quest’uomo osceno e provocatore, ossessionato dal sesso (oggi si direbbe “sex addicted”), viene ritratto da Philip Roth come un personaggio umanissimo, titanico, esuberante, incommensurabile, al tempo stesso tragico e buffonesco, istrionico e patetico, come un novello Falstaff.
Nell’epopea di Sabbath si incarna alla perfezione l’eterno dualismo eros-thanatos. Fin dalla citazione shakespeariana posta in esergo (“Un pensiero su tre lo rivolgo alla mia tomba”), la morte incombe come una presenza ineludibile sul romanzo. Ben presto, attraverso i continui andirivieni temporali sollecitati dalla vibratile memoria di Sabbath (“non c’era più niente che fosse soltanto quel che era: ogni cosa gliene rammentava un’altra, passata e perduta o sul punto di perdersi”)., veniamo a conoscenza del terribile trauma da lui subito in giovanissima età, la morte in guerra dell’adorato fratello maggiore, avvenimento che ha causato la rovina della sua famiglia, incapace di reggere a un simile colpo della sorte. Della propria infanzia il protagonista conserva un nostalgico ricordo di purezza, di innocenza, di infinità, fatalmente infrantesi contro gli scogli della cruda realtà. La vita del Sabbath attuale nasce da questo tradimento originario (“non c’è mai niente che mantenga quel che promette”), nasce in quel fatidico 1° dicembre 1944 che, per un lapsus freudiano, l’uomo pone, nel suo finto necrologio, come sua data di nascita, posticipando quella reale di quindici anni. La sua nuova esistenza scaturisce dalle esperienze fatte a diciassette anni, dopo essersi imbarcato su una nave mercantile diretta in Sudamerica per sfuggire all’opprimente e funerea atmosfera che si respirava in una famiglia perennemente in lutto. Da lì in avanti si snoda un frenetico amarcord erotico, dapprima attraverso i bordelli dell’Avana e di Bahia, dove avviene la sua iniziazione sessuale, e poi in alberghi ad ore, talami coniugali, giacigli improvvisati e dovunque lo spinga la sua incontenibile, libidinosa voluttà, come un Casanova del nostro secolo costretto a replicare all’infinito le sue arti seduttorie. La memoria di Sabbath, giunto ormai alle soglie della vecchiaia, va incessantemente alla ricerca delle cause che lo hanno portato a essere un uomo alla deriva, senza più casa, né moglie, né lavoro, né amante, con la prospettiva del suicidio come unica, paradossale, ragione di vita. La stessa madre, tanto amata in gioventù e il cui fantasma si materializza nei momenti più impensati, durante gli amplessi con Drenka o mentre è al volante della sua auto, lo incita senza giri di parole a darsi la morte. Quella del suicidio diventa per Sabbath una vera e propria idea fissa, che le tragiche morti autoinflitte del padre di Roseanna e del suo vecchio amico Lincoln e la pila di libri sul trapasso che egli accumula sul comodino rafforzano inesorabilmente, e che prende letteralmente vita alla stregua di una presenza spettrale che lo perseguita senza tregua (“Il desiderio-di-non-essere-più-vivo accompagnò Sabbath giù per la scala del metro e, quando comprò il biglietto, gli si incollò alla schiena seguendolo attraverso il cancello automatico; e quando salì sul treno gli si sedette in grembo, rivolto verso di lui, e cominciò a contare sulle dita contorte di Sabbath i vari modi in cui lo si poteva soddisfare. Il primo maialino si taglia le vene, il secondo maialino usa un sacchetto di plastica, il terzo maialino prende dei sonniferi, e il quarto maialino, nato vicino al mare, corre fra le onde e lì si annega”). In questa tristissima elegia della terza età Sabbath si sente arrivato alla fine della corsa, e tutte le sue scelte sembrano autodistruttivi tentativi di addivenire al redde rationem con se stesso (“Tutto fugge, a cominciare dalla tua identità, e a un certo momento, un momento imprecisabile, arrivi quasi a capire che quel tuo antagonista spietato sei sempre tu”) senza più avere alternative di sorta. In lui, in fondo, c’è una sorta di vanità del fallimento, uno spericolato orgoglio di camminare sul filo, con il vuoto sotto i piedi, senza alcuna rete di protezione. Rinunciando ai normali tentativi che tutti gli uomini mettono in atto ogni giorno per sopportare, riparare e appianare, Sabbath butta all’aria la sua vita, si fa cacciare di casa prima dalla moglie Roseanna e poi dall’amico Norman che lo ha accolto sotto il suo tetto, come se volesse tagliare tutti i ponti alle sue spalle e non poter permettersi alcun ripensamento. Eppure, miracolosamente, la vita riesce a riservare a Sabbath, nonostante tutti i suoi insuccessi e le sue disfatte, un irresistibile potere seduttivo. Il Sabbath che, trovatosi a dormire nella stanza della figlia adolescente di Norman, rovista i cassetti della ragazza in cerca dei morbosi piaceri che la biancheria intima femminile è in grado di procurargli, mi hanno ricordato il Boudu del film di Jean Renoir, il senzatetto parigino che, dopo essere stato salvato dal suo tentativo di annegamento da un ricco borghese, si insedia in casa del suo benefattore e, senza riguardo per l’uomo a cui deve la vita, ne seduce la cameriera e la consorte. Per Sabbath il fascino dell’universo femminile è parimenti irresistibile. Consapevole di essere giunto al suo ultimo giro di giostra, egli brama con concupiscenza ancora una amante, ancora un’ultima esperienza sessuale, non importa se sia una studentessa che potrebbe essere sua figlia, una domestica messicana grassa e ignorante oppure la moglie dell’unico amico rimastogli.
Sabbath è un burattinaio, o almeno lo è stato fino a che l’artrite deformante alle mani lo ha costretto ad abbandonare la sua attività. Egli è comunque rimasto un burattinaio nell’animo, un “maestro di inganni, di artifici e di irrealtà”. L’intera sua vita in fondo è stata una recita, non si sa mai se egli sia una cosa o il suo opposto, se pensi una cosa o la simuli solamente, se il suo desiderio di morte sia autentico o solo l’ennesima finzione. In Sabbath sembrano risuonare i famosi versi del “Macbeth” shakespeariano: “La vita non è che un’ombra che cammina, un povero attore che si pavoneggia e si agita su un palcoscenico […], un racconto narrato da un idiota, pieno di rumori e strepiti che non significano nulla”. Quando, raccontando a Norman la sua vita, Sabbath scoppia a piangere, non sa neppure lui se le sue lacrime siano una simulazione oppure la reale misura della propria infelicità, se siano il frutto di una astuta recita volta a commuovere l’amico e carpirgli il permesso di dormire a casa sua per qualche notte oppure lo sfogo sincero di un uomo che, avendo toccato il fondo, non ce la fa più. Quella dell’attore è una seconda pelle, una doppia natura: quando di notte, tra le tombe del cimitero di Madamaska Falls, viene arrestato dalla polizia, Sabbath scambia la torcia che gli viene puntata negli occhi per le luci di un palcoscenico e crede di essere tornato il guitto di una volta, “un pagliaccio per l’esercito dei morti” trovatosi a recitare “un vaudeville per fantasmi”. Il teatro è onnipresente, non soltanto nel titolo del romanzo. “Il Teatro degli Indecenti” è lo spettacolo di strada che il giovane Sabbath allestisce per le vie di New York, e a teatro conosce la prima moglie Nikki, una ragazza fragile che riesce a vivere la realtà solo nella finzione scenica, mentre fuori della recita si perde nell’irrealtà. “Il giardino dei ciliegi” di Cechov, che Sabbath aveva allestito in gioventù con la moglie, è poi una perfetta metafora dell’intensa nostalgia per il passato e della disintegrazione del presente che pervadono l’esistenza del protagonista. E, ancora, il “Re Lear” è l’opera in cui il deragliato burattinaio si identifica di più, fino al punto di immaginare che la ragazza seduta vicino a lui in un vagone della metropolitana, e che lo aiuta a ricordare i versi della tragedia shakespeariana, possa essere la figlia di Nikki (e quindi in qualche modo anche la sua), la figlia della moglie scomparsa tanti anni prima senza lasciare tracce (sparizione di cui Sabbath si sente oscuramente responsabile, al punto da confessare a più di un interlocutore di averla uccisa con le proprie mani). Sabbath nell’intimo resta sempre un artista, e quindi un manipolatore di coscienze. Della stessa adorata Drenka, indimenticabile compagna di trasgressioni, Roth dice che “dentro quella donna c’era qualcuno che pensava come un uomo, e l’uomo in questione era Sabbath”. Eppure il burattinaio scopre a sua volta di essere un burattino. Quando seduce una studentessa di vent’anni, inconsapevole che la cosa verrà scoperta e lui licenziato in tronco dall’università dove lavora e additato al pubblico ludibrio, egli è un carnefice in procinto di diventare una ridicola vittima delle sue trame perverse. “Anche mentre iniziava ad avvolgere il mulinello, dolcemente, senza fretta, prendendosi tutto il tempo del mondo per tirarla a riva, tutta grande, lentigginosa e saltellante di vita, dentro di sé Sabbath era così eccitato che non si accorse neanche lontanamente di essere lui a farsi guidare attraverso chilometri di lussuria grazie all'amo con cui lei lo aveva catturato; non aveva idea, lui che da un mese appena aveva compiuto sessant'anni, che era lui a essere abilmente catturato e tirato a riva e che un giorno ormai molto prossimo si sarebbe trovato svuotato dei visceri, imbalsamato e appeso come un trofeo sulla parete dietro la scrivania della preside”. Giunto al crepuscolo dei suoi giorni, Sabbath si rende amaramente conto di non essere affatto, come pensava, l’artefice del proprio destino (“Tu sei il burattino. Tu sei il grottesco buffone. Tu sei il Pulcinella, il burattino che gioca con i tabù!”).
Sabbath è un personaggio rabelaisiano, rodomontesco. Trascinato dal suo sfrenato vitalismo, egli si getta spericolatamente contro tutto ciò che è opportuno, decente, conveniente e vantaggioso. Le sue filippiche contro tutto e contro tutti (i paladini della morale e i giapponesi, il matrimonio e la religione ebraica, i rehab e gli Alcolisti Anonimi) sono delle trasgressive e iconoclaste esibizioni di uno spirito talmente libero da essere perfino libero dal desiderio di piacere. L’uomo che tocca l’apice della blasfemia arrivando a sostenere che “Dio incarna tutti gli orrori del mondo” è in realtà un personaggio che ispira una profonda compassione. Sabbath, che è assediato costantemente dalla morte ma ha sempre respinto ogni tipo di autocommiserazione, si domanda a un certo punto: “C’è qualcosa di religioso in me?”. In questo “panegirico vivente dell’oscenità”, in questo santo invertito che si dedica “a fottere nello stesso modo in cui un monaco si dedica a Dio”, forse cercando nel sesso un surrogato di eternità, c’è in effetti un inaspettato senso del sacro. Le scene in cui onora la memoria di Drenka masturbandosi sulla sua tomba sono rivoltanti e oltraggiose, ma sono anche a loro modo strazianti espressioni di un sentimento puro e primitivamente innocente, che mai ci si aspetterebbe in un uomo cinico e ostinatamente ribelle contro tutte le regole borghesi: l’amore. L’amante dissoluta con cui ha condiviso anni di sfrenata lussuria tradendo ripetutamente la moglie, la sua “gemella genitale”, è l’essere umano con cui Sabbath ha creato un’autentica complicità e comunione di anime. La loro spregiudicata relazione, il loro “contromatrimonio”, è qualcosa di saldo e indistruttibile, che in qualche strano, illogico modo sfiora la trascendenza e la spiritualità, e la morte prematura della donna, dovuta a un male incurabile, è un lutto tale da lasciare Sabbath come un guscio vuoto e inutile abbandonato sulla spiaggia da una mareggiata. Varcata la soglia della senilità, “colpito dal miracolo di essere sopravvissuto per tutti quegli anni in mano a una persona come se stesso”, a Sabbath non è rimasto altro se non una bandiera americana e una kippah (simboli forse dell’inevitabile permanenza dei retaggi della società e della religione anche nell’essere più anticonformista), una scatola con i ricordi del fratello morto da conservare e una fredda tomba da onorare con lacrime e sperma. Dall’infinità dell’infanzia al nulla del presente si snoda questa lacerante parabola di vita che, nelle sapienti mani di Roth, diventa l’emblema stesso di una umanità sballottata dal caso, in cui l’erotismo (come l’alcolismo per Roseanna o il miraggio di una vita agiata e senza più sorprese per Norman) è un modo come un altro per allontanare la disperazione ed il senso tragico della provvisorietà dell’esistenza.
Nella produzione di Philip Roth si sono sempre alternate due componenti, una apollinea (forse quella più conosciuta, da “Pastorale americana” a “La macchia umana”) e un’altra dionisiaca (“Lamento di Portnoy”, ad esempio). “Il teatro di Sabbath fa parte indubbiamente di quest’ultima. L’incontestabile grandezza dispiegata dall’autore in quest’opera è stata quella di aver saputo creare con un materiale prosaico e volgare, a tratti addirittura al limite della pornografia, un autentico capolavoro. Lo stile di Roth è qui incredibilmente sfaccettato e barocco. Incurante delle regole della simmetria narrativa, lo scrittore americano non si preoccupa di abbandonare la storia principale, fino ad arrivare a farci quasi dimenticare le peripezie attuali del protagonista, pur di abbandonarsi, per lunghe e densissime pagine, alla seduzione sottile delle sirene del passato. Sabbath si crogiola continuamente in sensazioni, immagini mentali e odori che gli richiamano il paradiso perduto dell’infanzia e della gioventù. Per esempio, egli si reca spesso da Flo’n Bert’s, un locale fatiscente, sudicio e sporco, per il solo motivo che il suo odore di marciume gli ricorda quello di una vecchia drogheria dove da bambino andava a comprare il pane per la mamma. Oppure, quando si corica sul letto della figlia di Norman, egli cerca di assorbire, attraverso l’impercettibile impronta lasciata dal corpo della ragazza sul materasso, quel senso impalpabile di giovinezza che lo possa riportare ai suoi mitici diciassette anni delle sue prime, spensierate, esperienze erotiche. In questo senso, “Il teatro di Sabbath” può essere addirittura visto come una versione triviale e oscena della “Recherche” di Proust. Con il suo gusto del pastiche e con il suo spirito ribaldamente postmoderno, Roth dimostra di non temere affatto il confronto con i mostri sacri della letteratura, siano essi Nabokov o Gaddis. In un passo del libro c’è perfino un monologo interiore di chiara impronta joyciana (e che la citazione non sia casuale lo si intuisce da un irresistibile neologismo, il verbo “mollybloomare”). Ne “Il teatro di Sabbath” del resto le citazioni, non solo letterarie, abbondano, dal dipinto “Origine della Via Lattea” del Tintoretto alle tragedie di Shakespeare, da “Santuario” di William Faulkner ad “Anna Karenina” e “Madame Bovary”. Nel romanzo aleggia anche un sapido umorismo di chiara derivazione ebraica. Certe battute sembrano uscite pari pari dai film di Groucho Marx e di Woody Allen: “Ciò che conta davvero nella vita è l'odio profondo. […] Una volta, seguendo il consiglio di mia moglie, ho provato a farne a meno per un'intera settimana. A momenti ci restavo”; oppure “Si sentiva […] come Emma Bovary quando andava a cavallo con Rodolphe. Nei grandi capolavori, quando commettono un adulterio poi si ammazzano sempre. Lui desiderava di ammazzarsi quando non ci riusciva”. L’abilità di Roth è quella di trapassare in continuazione, senza sforzo apparente, dai momenti di divertita e disinvolta leggerezza (il passo sulle erezioni mattutine e l’inno al clitoride – “se qualcosa poteva servire a Sabbath per dimostrare l'esistenza di Dio […] erano le migliaia e migliaia di orgasmi danzanti sulla capocchia di quello spillo” – sono davvero irresistibili) a quelli di struggente malinconia, dalla commedia alla tragedia, spesso addirittura nella stessa frase (quando, ad esempio, crede di essere morto ma anziché vagare per i Campi Elisi si ritrova in un altrove che è il vialetto di casa sua, Sabbath si domanda comicamente di chi mai possa essere l’automobile posteggiata accanto a quella di sua moglie). L’immensa statura artistica di Roth, quella che rende “Il teatro di Sabbath” l’opera forse più memorabile della sua produzione, è comunque rivelata, più di qualsiasi altra cosa, dall’aver saputo creare un personaggio incredibile, strabiliante, dalle mille sfumature, strabordante di originali riflessioni sull’esistenza e pregno di feconda ambiguità, in cui non avrei mai pensato di potermi identificare, ma che alla fine è riuscito a strapparmi lacrime di autentica commozione. Per un personaggio così smisurato ben si adatta, credo, la “Smisurata preghiera” di “Anime salve”, e mi piace terminare questa recensione affidandola agli indimenticabili versi di Fabrizio De André e di Ivano Fossati: “Per chi viaggia in direzione ostinata e contraria / Col suo marchio speciale di speciale disperazione / E tra il vomito dei respinti muove gli ultimi passi / Per consegnare alla morte una goccia di splendore / Di umanità, di verità / […] / Ricorda Signore questi servi disobbedienti / Alle leggi del branco / Non dimenticare il loro volto / Che dopo tanto sbandare / è appena giusto che la fortuna li aiuti / Come una svista / Come un'anomalia / Come una distrazione / Come un dovere”.
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