Dettagli Recensione
Epiphane Otos
«Ora, uno può pure odiarsi dalla testa ai piedi, ma ciò non toglie che si esiti ad abbandonare il proprio intero involucro. Avevo bene o male abitato quella pelle per vent’anni, questo creava un legame tra me e lei. Se non mi restava più nulla di originario, quel corpo avrebbe potuto considerarsi comunque mio? Eliminare anche uno dei suoi difetti non equivaleva forse alla mia morte? Non ne facevo una questione morale, ma un problema metafisico: fino a che grado di metamorfosi si resta se stessi? La sola certezza che abbiamo di fronte alla morte è la scomparsa dell’involucro carnale. Che siano il bisturi o i vermi a incaricarsene, forse non fa differenza.»
Epiphane Otos, detto Quasimodo per le sue fattezze tanto orripilanti e così in contraddizione e contrapposizione con il suo essere esteta incantato della bellezza più pura e cristallina, è innamorato di Ethel. Conosciuta per caso durante un provino per un film ella è divenuta l’oggetto del suo decantare, della sua bellezza, del suo vivere quotidiano. Amata, desiderata seppur platonicamente, idolatrata: è lei la destinataria di quell’elogio tanto ricco di profetiche parole quanto sentimentale. Ma può una creatura così bella affiancarsi all’uomo più brutto del Creato?
Da qui prende il via una delle più canoniche vicissitudini già note in letteratura e oggetto di cliché in cui tutti per una ragione o per l’altra siamo incappati sin dall’infanzia anche semplicemente con le favole più famose. Eppure, è dietro il paradosso e l’apparente ovvio che si nasconde la non affatto scontata riflessione davanti alla quale ci conduce Amélie Nothomb in quello che è un romanzo che è un elogio alla bellezza, una riflessione su questa e il concetto ampio di bruttezza ma anche sul sentimento, sul cuore, sull’animo, sui legami, sui risvolti che questi possono portare, sulle delusioni, sulle conseguenze. Perché mai Ethel prenderà davvero sul serio i sentimenti del nostro Quasimodo. Lo riterrà essere il suo migliore amico, il suo confidente, colui che come nessuno sa decantarne le qualità ma che al contempo mai prende in considerazione quale possibile compagno. Per partito preso, perché non i conosce il suo amore, per un altro cliché dettato dal fatto che una così bella non può prendere in considerazione uno così orribile? Che sia per qualunque o per nessuna di queste considerazioni, di fatto il lettore è chiamato ad interrogarsi. All’inizio entra all’interno della mente dell’uomo, risente l’impostazione di opere quali Gabriele D’annunzio, riassapora la scuola dell’estetismo e della contemplazione del bello e irraggiungibile, se ne distacca in una seconda fase a cui consegue il desiderio di andare oltre questo dato e di entrare davvero in quello che il retroscena, giunge poi all’esser schiacciato quando poi la bella si innamora dell’altrettanto bello suo simile tanto che sembra che il dogma sia di fatto improcrastinabile, infine, giunge a quella che è l’esternazione del sentimento e infine all’inevitabile epilogo. Perché se è vero che si può attingere a un dono della parola e dell’intelligenza per compensare alla condanna, perché se è vero che nessun amore è impossibile e allora possibile può essere, è altresì altrettanto vero che la ferita lacerante, il dolore della delusione, il disincanto della perdita dell’oggetto amato, portano alla conseguenza più nefasta e all’epilogo più cruente.
«Non è quello che mi colpisce di più. Detesto l’autorità con cui ci vogliono inculcare la norma del bello. Se la bellezza smette di essere soggettiva, non vale più nulla.»
Tante le tematiche che la Nothomb riporta in questo titolo classe 1997 e che per effetto rimandano ad un altro componimento più recente dell’autrice, ovvero “Riccardin dal ciuffo” (Voland 2017) con le dovute differenze del caso. Se anche in questo secondo titolo proposto ella torna a parlarci del concetto di bellezza in antitesi a quello di bruttezza, in “Attentato” si va oltre, si parla questo ma anche di banalità, di superficialità, di cattiveria implicita e spesso spuria, di quotidianità troppo spesso lasciata dilagare.
Il tutto con quell’inconfondibile spirito critico, affilato, violento, ironico, satirico, umoristico ed erudito che è proprio della belga. E badate bene, nulla è lasciato al caso nemmeno lo stesso nome del protagonista.
Un titolo che si legge con rapidità ma che non lascia indifferenti, al contrario. Lo si ultima in poche ore, lo si ricorda per tempo ininterrotto.
«In verità, non fui capace di alcuna riflessione: ci vuole un minimo di vuoto in sé per riuscire a traslocare le idee e a trovar loro un buon posto. Ero troppo pieno. Ignoro quante ore sono rimasto sprofondato in questo pantano interiore.»