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L'ALTRA VITA
“Possiamo vivere nell’errore continuo, credere di avere una vita comprensibile, stabile e afferrabile, e poi scoprire che tutto è insicuro, melmoso, sfuggente, che non abbiamo un terreno solido su cui poggiare; o che tutto è una rappresentazione, come se fossimo a teatro convinti di vivere la realtà e non ci fossimo resi conto che si sono spente le luci e si è alzato il sipario e che per di piú siamo sul palcoscenico e non… sotto, tra gli spettatori.”
Nel quarto atto dell”Enrico V” di William Shakespeare, il re inglese si aggira in incognito, nella notte che precede la battaglia di Azincourt, all’interno del proprio accampamento, al fine di sondare l’umore delle truppe. Approfittando dell’anonimato, ha modo di parlare con alcuni soldati i quali, non sapendo di essere ascoltati proprio dal sovrano in persona, lo maledicono per aver deciso di mandarli a morire contro un esercito, quello francese, superiore per numero e per freschezza. Questa scena, che non è esattamente tra le più famose e memorabili del Bardo, viene utilizzata nel corso di un dialogo tra Berta e Tomas, i due coniugi protagonisti del romanzo di Marias, per affrontare il tema della liceità etica del comportamento di colui che agisce sotto mentite spoglie per carpire subdolamente la fiducia altrui, dell’infiltrato che occulta la propria vera identità per esibirne una fittizia e simulata allo scopo di ricavare un tornaconto personale, insomma della spia, quale Tomas effettivamente è, al punto di trincerarsi per anni dietro la consegna del silenzio e tenere segreta alla moglie la propria vita fuori delle mura di casa. Ho scelto questo esempio per asseverare il fatto che Javier Marias fa nei suoi libri un utilizzo delle citazioni letterarie non solo insolitamente abbondante e copioso, ma addirittura, se così posso esprimermi, quintessenziale rispetto alla propria poetica. Le citazioni di Marias non sono un mero sfoggio di cultura, e neppure (se non in alcuni casi, come quando scopriamo che il libro letto da Janet dopo aver fatto l’amore con Tomas è – guarda caso - “L’agente segreto” di Conrad) strizzatine d’occhio a beneficio dei lettori più avveduti, ma un modo per alludere sottilmente alla vicenda narrata e irradiare così, in una continua alternanza tra finzione e realtà, echi e rimandi di inusitata suggestione. Come ben sa chi ha già letto altre opere dello scrittore spagnolo (si pensi a “Domani nella battaglia pensa a me”, che fin dal titolo rinvia al “Riccardo III” di Shakespeare), Marias ama puntellare le sue storie con il richiamo di precedenti letterari illustri, i quali, lungi dal far apparire la sua opera poco originale, le permettono di riverberare i temi trattati con sfumature sempre più nuove e sorprendenti. In “Berta Isla” questo metodo è utilizzato alla massima potenza, e tra le citazioni palesi (lo Shakespeare a cui ho già accennato, “Il ritorno di Martin Guerre”, il Balzac de “Il colonnello Chabert), quelle espresse solo a metà (il racconto “Wakefield” di Nathaniel Hawthorne) e quelle implicite (il parallelo non detto ma evidente con l’”Odissea”, con Tomas nel ruolo di Ulisse e Berta in quello di Penelope) spiccano, come autentico filo conduttore del libro, i “Quattro quartetti” di T.S. Eliot. Questi poemetti, i cui versi letti distrattamente per la prima volta da Tomas in una libreria di Londra mentre attende l’ora del fatidico appuntamento che determinerà il suo destino, e poi riemergenti in maniera quasi inconscia, come fossero degli arcani vaticini, in tutti i momenti topici della vita di Tomas e Berta, suggellano alla perfezione (soprattutto il quinto movimento dell’ultimo quartetto, “Little Gidding”) il senso del romanzo, costituendo per il lettore una sorta di atlante per riuscire a decifrarlo appieno. Innanzitutto, ci si trova di fronte a una vera e propria dichiarazione di poetica. “Quando ogni parola è al suo posto,/ e fa la sua parte per sostenere le altre,/ … / la parola comune esatta senza essere volgare,/ la parola formale precisa ma non pedante,/ in armonia perfetta, come compagni di danza”: sembra proprio che lo stile di Marias, elegante e raffinato ma mai appariscente ed affettato, minuzioso e profondo ma al tempo stesso estremamente accessibile, si ispiri e si adegui a queste indicazioni. In secondo luogo, la circolarità della vicenda è presagita dai versi: “Ciò che chiamiamo il principio è spesso la fine/ e finire è cominciare./ La fine è là donde partiamo”, e ancora: “Non cesseremo di esplorare/ e alla fine dell’esplorazione/ saremo al punto di partenza/ sapremo il luogo per la prima volta”. La permanenza del passato nel presente è invece adombrata nella strofa “Noi moriamo con quelli che muoiono:/ ecco, essi partono, e noi andiamo con loro./ Noi nasciamo con i morti:/ ecco, essi tornano, e ci portano con loro”. Si perviene infine alla atemporalità di “La storia è una trama di momenti senza tempo” e “Su, presto, qui, ora, sempre…”, e a quello che a Tomas, all’inizio del libro, appare come una sorta di predizione, di responso oracolare di ciò che sarà da quel momento in poi la sua vita: “Ed ogni azione/ è un passo verso il patibolo, il fuoco, la gola del mare/ o verso una pietra illeggibile”.
Berta e Tomas si amano e si desiderano, ma sono condannati a non riuscire a vivere la quotidianità del rapporto di coppia, la routine delle famiglie normali. I viaggi di lavoro di Tomas, che lo fanno assentare per periodi ogni volta intollerabilmente più lunghi, sono dei veri e propri buchi neri in cui l’esistenza di tutti i giorni collassa e quasi si interrompe, come un’onda che si ritira lasciando al suo posto solo la schiuma dell’attesa. L’attesa diventa così la condizione normale, addirittura auspicabile se solo si vuole cercare di scongiurare l’azione del tempo e rimandare sospirato ma temibile il redde rationem del reincontro. Il tempo (sarà un caso che i migliori romanzi degli ultimi cento anni parlino tutti, in un modo o nell’altro, del tempo, che – per citare Richard Powers – “è l’autore degli autori”?), il tempo – dicevo – fa cambiare inesorabilmente le persone. Non appena esse si allontanano da noi, la loro identità incomincia gradualmente a sfumare e a essere sostituita da istantanee statiche e immutabili, che giocoforza non corrispondono più al soggetto (come Berta sperimenta durante il “mancato” appuntamento con Esteban Yanes, l’uomo con cui venti anni prima aveva perso la verginità, il quale si presenta all’incontro con sembianze che non solo non coincidono, ma sono addirittura antitetiche – ora egli è obeso e quasi calvo – con i ricordi della donna). Allora il tempo, che consuma e corrompe, e la memoria, che non trattiene e lascia evaporare, fanno sì che le persone spariscano dalla nostra vita e dalla nostra mente, relegate a vivere in una dimensione parallela e fittizia, che la prolungata e immotivata assenza di Tomas, che scompare da Madrid senza più dare notizie di sé, ipostatizza fino a farla diventare una condizione umana universale. Ciò porta Marias a interrogarsi sul problema dell’identità, esplicitato fin dalle prime, emblematiche parole del romanzo: “Per molto tempo non avrebbe saputo dire se suo marito era suo marito”. Gli esseri umani sono destinati a rimanere indefinibili, imperscrutabili, se perfino chi ci dorme a fianco e condivide la nostra intimità è un impenetrabile enigma. Come già aveva detto Dickens, opportunamente citato nel romanzo, “ogni creatura umana è destinata a costituire un profondo e segreto mistero per tutte le altre”. Per sviluppare questo concetto, Marias sceglie pirandellianamente di fare del marito un agente segreto, una persona obbligata per definizione a un codice del silenzio e della riservatezza che lo trasforma in un irrisolvibile rompicapo. In “Domani nella battaglia pensa a me” Marias aveva scritto che “solo ciò che può essere raccontato esiste”. Tacendo e occultando quello che fa, Tomas si condanna all’inesistenza (“Ci siamo ma non esistiamo, o esistiamo però non ci siamo”), trasformandosi in un fantasma, una presenza impalpabile capace di contraddire perfino la sua concreta e tangibile presenza (“Sarò chi non sono, sarò fittizio, sarò uno spettro che va e viene, che si allontana e ritorna. E accadrò, sarò mare e neve e vento”). Parallelamente e in ragione di questa opacità e indecifrabilità degli altri, la protagonista a sua volta si sfalda, si disgrega, si scompone in innumerevoli frammenti (“una vita insieme finita e non completamente cominciata, nubile e vedova e sposata insieme, una vita sospesa o interrotta o stranamente rinviata”).
Se gli altri sono inconoscibili, altrettanto incomprensibile è la realtà, posizione che avvicina Marias a certe posizioni della filosofia contemporanea e postmoderna, le quali negano, nel loro relativismo, che la ragione umana possa giungere alla verità e alla comprensione del mondo. Se Marias affida a Berta il tema dell’identità, la riflessione epistemologica, non meno importante, sul senso della vita e sulla impossibilità di arrivare a conoscere una verità oggettiva e affidabile viene riservata a Tomas, il quale, pur avendo meno pagine a disposizione rispetto alla moglie, riveste una pari dignità di protagonista. Appare strana pertanto la scelta di intitolare il romanzo alla sola Berta Isla, quando forse meglio sarebbe stato – a mio parere – chiamarlo “Berta e Tomas”. E’ vero che a Berta è riservata, dal terzo capitolo in poi, la prima persona e a Tomas la più impersonale terza persona, ma questo, anziché essere una contraddizione con quanto appena sostenuto, è perfettamente calzante con la natura del personaggio, dal momento che Marias suggerisce un interessantissimo parallelo tra la professione di spia e il ruolo del narratore in terza persona di un romanzo, che c’è ma al tempo stesso non esiste, che è onnisciente ma invisibile, indiscernibile. Tomas, costretto a entrare obtorto collo nei servizi segreti britannici, i quali hanno intravisto nella sua straordinaria capacità di imitazione e di apprendimento delle lingue un eccezionale potenziale da sfruttare, sperimenta che la vita è labile, ambigua e sfuggente. Peggio ancora, essa è eterodiretta: noi crediamo di dirigerla, di governarla, di tenerla saldamente nelle nostre mani, e invece stiamo solo recitando un copione scritto da chissà chi, percorrendo una strada da cui non si può in alcun modo uscire, neppure quando si vorrebbe tentare di fuggire, e che “condiziona i nostri movimenti e i nostri avvelenati passi”. Il carismatico professor Wheeler propone a Tomas di entrare nei servizi segreti per non rimanere un “reietto dell’universo”, per poter incidere almeno in parte sul mondo. Beffardamente, a Tomas verrà però riservato lo stesso destino del personaggio di Hawthorne, che Wheeler aveva preso a emblema dell’uomo-oggetto, passivo e insignificante, invisibile e inesistente agli occhi di tutti. Vivere la finzione di essere due persone allo stesso tempo è una fugace illusione, una stolida vanità, una imperdonabile presunzione, insomma una condanna. Come dice minacciosamente Kindelan a Berta, quello della spia “è un mestiere da cui si esce sempre male, … squilibrati o morti. E quelli che non vengono giustiziati e non impazziscono del tutto, finiscono per non sapere più chi sono”. Rispetto a Berta il lettore è in una posizione privilegiata: lui conosce, a differenza della donna, il motivo per cui Tomas è entrato a far parte del MI6 e ha scelto una professione i cui frutti, seppur ben remunerati, sono ignorati e misconosciuti da tutti, e che per di più gli impedisce di vivere una vita familiare normale, vicino alla moglie e ai figli. Il lettore lo sa, come ovviamente lo sa Tomas. Eppure anche la verità individuale, custodita da ciascuno di noi nello scrigno della nostra anima e che ci rende agli occhi degli altri un mistero insondabile, anche questa verità è parziale, effimera e fallace, e Marias ce lo ricorda con un inatteso, sorprendente colpo di scena a poche pagine dal termine del libro, che rovescia completamente, come in un giallo ben confezionato, le aspettative dei lettori.
Con “Berta Isla” Javier Marias ha costruito un romanzo avvincente, che non disdegna affatto, come ho appena accennato, gli spunti e le astuzie della letteratura di genere. Come in “Domani nella battaglia pensa a me”, che si apre con la morte improvvisa e inesplicabile dell’amante, la quale getta il protagonista nel più totale sconcerto, anche qui c’è un evento clamoroso che fa sterzare la storia su una strada di ineluttabile fatalità. “Berta Isla” è così una spy story, con tutti i crismi che hanno sempre caratterizzato il genere, da Graham Greene a John Le Carré, ma allo stesso tempo è un romanzo filosofico, alterna momenti di trepidante suspense a pause di riflessione teorica, l’ingenuo piacere del lettore di feuilleton alla speculazione intellettuale, il thriller all’esistenzialismo. E’ un romanzo che, screziato solo da un impercettibile accenno di manierismo, affascina per il suo carattere originale e polimorfo e che, parafrasando Durrenmatt e il suo “La promessa”, si potrebbe a buon diritto sottotitolare “Un requiem per il romanzo spionistico”.
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Dell'autore ho letto solamente "L'uomo sentimentale" . Mi è bastato però per apprezzarne lo stile .