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Lamento d'un represso
I miei giudizi sulle opere di Philip Roth sono sempre piuttosto complicati da articolare. Dopo "Nemesi" e “Pastorale americana" eccomi al mio terzo approccio con l'autore, eppure non sono ancora riuscito a farmi un'idea precisa riguardo al mio gradimento nei suoi confronti.
Rispetto agli altri due romanzi che ho letto, “Lamento di Portnoy" è certamente il più irriverente e senza filtri, considerato che è narrato in prima persona da un uomo che, sul lettino del suo psicanalista, sciorina come un fiume in piena quella vita che l'ha portato a essere un trentacinquenne erotomane e decisamente a disagio nel suo status d'ebreo americano, oltre che profondamente in conflitto con l'ambiente familiare in cui è cresciuto. Alexander Portnoy è infatti condizionato in ogni suo processo mentale dalla figura ingombrante di sua madre, che l'ha tormentato con la sua presenza ossessiva e coi suoi comportamenti iper-protettivi. Dall' altro lato suo padre è un uomo, almeno agli occhi del figlio, mediocre e costretto a portare avanti una vita senza prospettive né ambizioni, schiacciato dalla figura dominante di sua moglie che applica in casa una tirannia del tutto psicologica, che tiene sotto scacco l'intera famiglia (a parte, forse, la sorella di Alexander, vero corpo estraneo della vicenda).
Queste sono solo alcune delle cose che vengono fuori dai pensieri di Alex, che hanno come fulcro le sue fantasie sessuali su un numero indefinito di Shikse (ovvero donne non ebree): tutto, nella sua vita, è una ribellione a quei dogmi, religiosi e non, dai quali è dominato fin dalla tenera età. Sebbene la condizione mentale del protagonista sia ben resa dal suo stesso modo di esprimersi e alcuni dei temi (soprattutto il condizionamento mentale causato dalla crescita in un determinato contesto familiare) siano sviscerati in certi tratti molto bene e in maniera interessante, “Lamento di Portnoy" non mi ha folgorato. Sarà perché i temi non sono quelli che più mi toccano? Non saprei, in certi punti non li sentivo poi così lontani. Sarà perché Roth tende a sfociare un po' troppo nella volgarità, di lessico e nel racconto di dettagli un po' sudici? Forse, ma sebbene in questo libro siano presenti più che in ogni altra opera che io abbia letto, non sono cose che mi giungono nuove. E allora cosa? È davvero difficile da dire, ma credo da forse il problema stia nel fatto da Roth non riesce a emozionarmi: può partorire paragrafi che magari colpiscono nella forma, ma non t'abbagliano l'anima né ti spingono a scavare a fondo dentro te stesso.
Ecco. forse ci siamo: Roth è troppo pragmatico.
Sebbene si scenda a fondo nell'animo e nelle pulsioni del nostro Alexander Portnoy, sembra difficile empatizzare con lui, ma non perché i suoi pensieri siano del tutto assurdi (a volte lo sono) o perché io sia un santo beatificato, ma perché l'autore riesce magistralmente a caratterizzare un individuo e il suo animo, ma non riesce a essere universale. Mentre scrivo questo mi rendo conto che forse sto sparando delle boiate facilmente smontabili da una persona che conosca meglio l'autore, o con una capacità di critica letteraria superiore alla mia, e mi piacerebbe confrontarmi con una persona del genere perché su quanto dico non sarei disposto a giurare. Eppure quest'idea serpeggiava nella mia mente a ogni pagina, e credo che in essa stia la motivazione per cui non ho amato “Lamento di Portnoy" e di Roth dico, ancora una volta: Rimandato.
“La signora Nimkin piangendo nella nostra cucina: «Perché? Perché? Perché ci ha fatto questo?» Sentito? Non cosa, eventualmente, noi abbiamo fatto a lui, mai più: perché ha fatto questo a noi? A noi! Noi che avremmo dato la vita per renderlo felice, e un famoso concertista per giunta! Davvero riescono a essere così ciechi? Può la gente essere tanto abissalmente idiota e vivere? Ci crederebbe? Possibile che siano equipaggiati con tutta l’attrezzatura, un cervello, una spina dorsale, e i quattro buchi per occhi e orecchie - equipaggiamento, signora Nimkin, sbalorditivo quasi quanto la Tv a colori - eppure vivano la vita senza cogliere il minimo indizio dell’esistenza di sentimenti e desideri in altri che non siano loro?”
Commenti
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e grazie per il tempo che ti sei presa per rispondermi! Credo sia il problema stia esattamente nel fatto che non c'è chimica: quell'aspetto del rapporto lettore autore che si fa fatica a descrivere o a esprimere oggettivamente. Non sapevo che fosse un'opera giovanile, e in effetti questo aspetto si sente abbastanza... sull'universalità dei suoi personaggi credo di essere d'accordo con te, è forse sulle riflessioni intime (soprattutto di Alexander) che ho trovato una specificità troppo marcata, come se i suoi problemi fossero così "suoi" da non permettermi di empatizzare. Ma rimane un giudizio soggettivo.
io proprio non saprei darti indicazioni in tal senso, perché dei tre romanzi di Roth che ho letto (compreso questo) non ce n'è stato nessuno che mi abbia letteralmente folgorato. Nel caso dovessi trovarne uno, troverai sicuramente una mia recensione qui su QLibri... anche perché, nonostante tutto, ho voglia di approfondirlo ancora.
ti ringrazio molto per le tue parole, ne sono lusingato.
Riguardo al fatto che "Lamento di Portnoy" sia un'opera giovanile, alla fine devo convenire con te e con gli altri che me l'hanno fatto notare. Sicuramente "Pastorale americana" è un'opera più matura e che riesce a fare un affresco del contesto americano. Pur non avendomi entusiasmato, è effettivamente un'opera di più ampio respiro.
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