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PIANETA MONDO
Nel romanzo post apocalittico che valse a Cormac McCarthy il premio Pulitzer nel 2007 è sparito il mondo inteso come l’insieme delle sovrastrutture mentali che necessitano all’uomo per decodificare, paradossalmente, le infrastrutture che ha costruito per gestire al meglio (?) il suo passaggio transitorio in questo spazio.
Lo scenario dopo la fine del mondo, parola da intendersi nella sua accezione più ampia, necessita di un nuovo processo di adattamento, di nuove abilità, di un codice che permetta celermente di distinguere nelle ceneri del vecchio pianeta Terra l’utile necessario alla mera sopravvivenza.
Il mondo è fatto terra cosparsa di cenere, deposito involontario delle scorie di una civiltà tanto avanzata quanto marcia: metropoli saccheggiate e perse nel loro groviglio artificioso di beni e servizi, ora del tutto inutili; spazi rurali, che un tempo avranno perfino assolto la funzione purificatrice di ricordare all’uomo il primitivo spazio al netto dell’antropizzazione eccessiva, capaci ancora di restituire un residuo di armonia: a volte cibo, altre volte sapiente uso delle proprie risorse, mai vita animale.
L’unico animale è l’uomo, alle prese con un nuovo processo di ominazione, non ha però questa volta da difendersi da nessun predatore, se non quelli della sua stessa specie, privi di un’etica ora più che mai necessaria. L’uomo però è stato colto impreparato dalla catastrofe: non aveva maturato un’etica, tantomeno ambientalista, ancor meno aveva sviluppato una morale condivisa. L’uomo si era perso nella pseudo etica individualista.
Recita un proverbio africano: “per far nascere un bambino bastano un uomo e una donna, per farlo crescere ed educarlo occorre l’intero villaggio”. Ed ecco che Cormac McCarthy ci riporta a questa condizione: un padre e un figlio, l’assenza della madre dettata dall’abbandono del nucleo famigliare per limite di sopportazione ( dopo il parto in pieno disastro e il primo tentativo di sopravvivenza cede alla disperazione più nera). Un padre che ricorda un mondo che non c’è più, che educa il bambino alla decodifica della complessità del reale che il piccolo non potrà più esperire ma che gli è utile per comprendere il prodotto di quelle convenzioni: suo padre prima, tutti gli esseri umani poi. La decisione di mettersi in viaggio verso sud per trovare gli altri all’insegna di una visione prettamente pragmatica e nettamente manichea, il resoconto del viaggio, le tappe randomizzate, gli incontri fortuiti, le battaglie, la fine del viaggio stesso.
Un susseguirsi di episodi la cui struttura fissa e ripetitiva potrebbe essere, nello stile sapientemente secco, minimalista, affidato a continui dialoghi, una piccola pecca nell’economia generale del breve romanzo che riesce però a farsi perdonare con un finale catartico che spazza via la dimensione individuale e apre uno spiraglio alla collettività intesa come accoglienza, speranza, fratellanza e soprattutto interdipendenza.
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Io non ci sono riuscito: in una simile lettura il lato emozionale ha preso di gran lunga il sopravvento.
Il parallelo con "Cecità" di Saramago è secondo me molto azzeccato, e non tanto e solo per la somigliante "ambientazione".
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