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LA SCALA DI GIACOBBE
“La scienza non c’entra con il controllo. C’entra con il coltivare un’eterna condizione di stupore davanti a qualcosa che diventa sempre più ricco e ingegnoso della nostra ultima teoria su di esso. […] Lo scopo della scienza è quello di perderci nel desiderio del mondo.”
Mentre leggevo “Canone del desiderio”, il cui bellissimo ma purtroppo intraducibile titolo originale (“The gold bug variations”) richiama ovviamente, oltre allo “Scarabeo d’oro” di Edgar Allan Poe, una delle composizioni più famose di Johann Sebastian Bach, le Variazioni Goldberg, mi sono soffermato a riflettere sulla curiosa influenza che il grande musicista tedesco del ‘700 ha esercitato su tante opere contemporanee extra-musicali. Una delle più rilevanti di esse riporta addirittura il nome del compositore nel titolo: mi riferisco a “Godel, Escher, Bach: un’eterna ghirlanda brillante”, scritta nel 1979 da Douglas Hofstadter. In questo meraviglioso e godibilissimo saggio, che indaga temi filosofici e scientifici come il funzionamento della mente, il significato della coscienza e la natura del linguaggio, con grande rigore teorico ma anche con innegabile arguzia (chi lo ha letto si ricorderà sicuramente i dialoghi tra Achille e la Tartaruga),ogni capitolo è costruito ispirandosi a un’opera di Bach, tra cui – ça va sans dire – le Variazioni Goldberg, anche qui oggetto – come nel libro di Powers – di un gioco di parole nel capitolo “Variazioni Goldbach” (il quale si rifà a uno dei problemi di teoria dei numeri noto come “congettura di Goldbach”). Powers ha sicuramente letto il testo di Hofstadter, che è uno dei capolavori delle scienze cognitive del XX secolo, così come deve essere stato ispirato da altri due capisaldi della biologia molecolare e della scienza dell’evoluzione, ossia “Il caso e la necessità” di Jacques Monod e “Il gene egoista” di Richard Dawkins, usciti rispettivamente nel 1970 e nel 1976, le cui argomentazioni sono ampiamente condivise dallo scrittore dell’Illinois. Chi conosce Powers ha imparato del resto a familiarizzare con la presenza nei suoi romanzi di una grande mole di riferimenti culturali, che in “Canone del desiderio” spaziano dalla genetica alla musica, dall’informatica alla pittura, dalla semiotica alla storia dell’arte, da Rainer Maria Rilke a Herri met de Bles, da Gregor Mendel a Edgar Allan Poe. La cosa non deve però spaventare il lettore, in quanto da un coacervo di materiale culturale estremamente eterogeneo, Powers è capace di distillare miracolosamente un concentrato di purissima letteratura. Nonostante che in esso si parli abbondantemente (e, non lo nego, anche in maniera a tratti abbastanza ostica, almeno per chi – come me – la scienza l’ha solo approssimativamente assaggiata nei lontani anni delle scuole superiori, e la musica la apprezza solamente da ascoltatore ignaro di cosa si nasconda dietro a quei misteriosi e indecifrabili simboli negli spartiti) di argomenti scientifici, come i tentativi del protagonista di decifrare, nella seconda metà degli anni ’50, la struttura del DNA, e musicali, come le sorprendenti e quasi mistiche analogie che legano le Variazioni Goldberg al DNA, quasi che la musica di Bach sia “la metafora migliore per il gene della vita”, nonostante ciò – dicevo – in “Canone del desiderio” non c’è nulla che possa assomigliare a quell’intento meramente divulgativo che è presente – che so – in libri come “Il mondo di Sofia” e che li rende del tutto insignificanti da un punto di vista artistico. Al contrario, il romanzo di Powers, nonostante lo si possa tacciare di freddezza e di scarsa originalità (“Canone del desiderio” può essere in fondo visto come una nuova versione di “Possessione”, pubblicato appena l’anno prima, giacché le due storie d’amore parallele tra Stuart e Jeanette e tra Jan e Franklin ricordano quelle, anch’esse vissute a distanza di molti anni, tra le due coppie protagoniste del libro di Antonia Susan Byatt), è un autentico capolavoro di stile e di maestria narrativa. Basti pensare al sapiente gioco di simmetrie e di metafore elaborato, con l’ausilio del genio “matematico” di Bach, da Richard Powers: le sessantaquattro note delle Variazioni come i sessantaquattro codoni del DNA, con la melodia originale che riecheggia nelle trenta variazioni a fare la funzione del gene regolatore, l’inconfondibile scala a spirale del DNA che, nel sogno ad occhi aperti di Ressler, evoca l’episodio biblico della scala di Giacobbe (“La strada a due corsie verso regni più elevati. Gli angeli vengono sorpresi mentre scendono e salgono in due solenni e immobili colonne opposte. […] Quattro varietà di angeli per rivelare le quattro basi del DNA”), la storia d’amore tra la narratrice e Franklin che riprende quella tra Stuart e Jeanette di venticinque anni prima, e così via.
Come non è facile apprezzare al primo ascolto la raffinata arte geometrica del maestro di Eisenach, allo stesso modo la lettura di Powers può sconcertare chi vi si avvicina per la prima volta e si trova ad affrontare il suo stile erudito, forbito, persino un po’ ampolloso (non ho trovato alcuno scrittore delle generazioni precedenti a cui accostarlo, se non – alla lontana, ma questa è un’opinione personalissima e molto opinabile – Henry James), con un largo uso di termini specialistici e di giochi di parole da iniziati. Powers fa entrare la scienza un po’ dappertutto, persino nella valutazione della bellezza femminile, come quando la protagonista, parlando di sé, afferma che “il mio era uno splendore di percentile medio, che si trovava esattamente sul rigonfiamento della curva normale del diagramma”, o quando l’autore suggerisce che la seduzione esercitata da Jeanette su Stuart “non sia più di un’eccitazione causata da carboidrati complessi, sistemi cibernetici che si reinseriscono l’uno nell’altro, un ciclo di istruzioni dowhile infinito”. Eppure questo scrittore apparentemente algido e lezioso, complesso e inavvicinabile, è quello che, nella letteratura contemporanea, forse più si è avvicinato all’ideale che auspicava Italo Calvino, ossia un linguaggio capace di esprimere “la molteplicità conoscitiva del mondo in cui viviamo”. Basterebbe limitarsi a leggere quella che è una delle pagine più avvincenti e sensuali non solo del romanzo, ma – senza tema di esagerare – della letteratura d’amore di tutti i tempi, ossia la descrizione dell’amplesso di Stuart e Jeanette, in cui l’autore, pur non rinunciando alla sua prosa iper-complessa, sa descrivere alla perfezione l’esplosione e la consumazione di un desiderio erotico a lungo trattenuto e procrastinato. I due giovani amanti si fanno travolgere da un’urgenza fisica che recupera tanto una atavica ferinità antica come il tempo (“Lei emette gemiti secchi e sommessi come i rumori di una foresta […] I lievi piagnucolii di un piccolo mammifero si condensano diventando violenti […] All’improvviso, riprende forsennatamente a muoversi, a sfuggire agli inseguitori […] Avanza verso di lui, le cosce dapprima morbide e delicate come quelle di un felino […] Il viso di Jeanette, quando sopraggiunge lo shock dell’ultima spinta muscolare, è sorpreso, uscendo allo scoperto con un’espressione di stupore ancestrale”) quanto l’inevitabilità chimica e biologica del sesso /”Le pieghe fluide di quell’infinito passaggio premono contro l’intruso, gli danno il benvenuto con tutta l’ingegnosità del progetto […] A turni, il corpo di lui è una conduttanza alimentata dal coito e qualcos’altro – la germinazione spontanea e autonoma delle piante […] Questa donna è stata da tempo inscritta nel suo genotipo. Rappresenta la sua elaborazione, il suo testo che si è fatto carne, che si è fatto enzima […] La base del cervello di Ressler viene inondata di interruttori chimici che non recupererà mai più”), riuscendo nondimeno a restituire una naturale e a suo modo poetica (benché tutt’altro che romantica) bellezza del gesto (“Il suo sforzo si propaga come i parossismi di un barometro che si arrende all’occhio del ciclone […] Qualcosa di più del sesso: uno scavo, in direzione della crosta terrestre, metrico e insufficiente, ogni volta sempre più giù, più vicino a un centro richiamato alla mente […] Per una breve eternità, il ricordo molecolare dell’azione persiste nei muscoli, si attenua lungo le spalle, il busto, gli arti, il sistema limbico come le note fondamentali di un immenso organo a canne che si diffondono nel duomo barocco per un periodo infinito prima di tornare al livello della navata centrale”). E’ un brano di travolgente bellezza, che riverbera i suoi effetti nelle restanti pagine del romanzo, così come nell’animo ardente e puro del protagonista. Anche se si parla di alleli, nucleotidi, enzimi e codoni, di ricerche di laboratorio in vitro e di scale musicali, i personaggi che emergono da “Canone del desiderio” non sono certo sbiadite e monodimensionali silhouette al servizio di una teoria, ma figure di sconvolgente concretezza, fatte di carne e di sangue, che amano e soffrono, e si fanno tragicamente carico delle conseguenze delle loro scelte di vita. La stessa scienza non è per Powers fredda e asettica, ma equivale alla vita stessa, e – come per la vita – il suo scopo è “quello di far rivivere e coltivare uno stato perpetuo di meraviglia”. Il desiderio del titolo non è quindi tanto – o perlomeno non solo – quello che scaturisce dall’amore tra due esseri umani, quanto quello dello scienziato che, esplorando il creato, anche quello invisibile a occhio nudo, si imbatte in un regno incantato e miracoloso e rimane a fissarlo pieno di stupore, di desiderio appunto, intuendo che nulla di quello che potrà realizzare in laboratorio sarà in grado di eguagliare la perfezione, la ricchezza e l’ingegnosità che milioni di anni di selezione naturale hanno prodotto.
Nella copertina (anche quella dell’edizione originale) del libro si cita una frase del Washington Post che suggerisce un parallelo tra “Canone del desiderio” e “L’arcobaleno della gravità”. Ebbene, non ci sono in realtà autori più diversi di Thomas Pynchon e di Richard Powers. Il caos entropico, la narrazione centrifuga, l’umorismo smodato, la scanzonata leggerezza e il rifiuto di farsi portavoce di una chiara posizione ideologica del più famoso degli autori postmoderni non appartengono all’universo letterario di Powers, colto e citazionista sì, ma strutturato in forme rigorosamente geometriche, serio e ponderato, e soprattutto tenacemente massimalista. Nei romanzi di Powers è sempre presente un chiaro messaggio morale e politico. In “Canone del desiderio” Stuart Ressler, interrogandosi sugli esiti delle sue ricerche, si preoccupa di come l’industria potrebbe sfruttare in maniera eticamente discutibile le sue disinteressate ricerche. “La manipolazione genetica è piena di tentativi di sostituire un denso, diversificato, eterogeneo assortimento di ceppi con uno superiore. C’è qualcosa in noi che è attratto dalla riduzione: vogliamo l’unica soluzione che allontanerà tutte le altre. […] Il mercato umano ha le stesse probabilità di migliorare il lavoro della selezione naturale di un dattilografo per diem di migliorare il Bartlett”. L’uomo contemporaneo pecca di hybris, volendo sostituirsi alla natura nel suo compulsivo desiderio di crescere e di creare, generando fatalmente una progressiva distruzione dell’habitat. “Un milione di specie perse irrimediabilmente per quando lui morirà, un’accelerazione della carneficina che può essere ignorata solamente con uno sforzo della volontà. Una specie al giorno, presto una all’ora, una al minuto. Non è colpa della ricerca in sé, ma è collegato allo stesso desiderio distruttivo di crescere, di essere di più. E in cambio – lui non riesce a cogliere lo scambio grottesco – qualche altra nuova specie che, per la prima volta nel creato, può essere firmata dall’artista”. Powers conferisce al suo protagonista, che agisce negli anni ’50, una strabiliante preveggenza, ma è lungimirante lui stesso, se si pensa che nel 1991 i progressi della genetica non si erano manifestati del tutto, e la pecora Dolly, per citare solo uno dei casi che avevano fatto più scalpore nel secolo scorso, era ancora di là da venire. Consapevole che è necessaria “una nuova scienza per salvare la creazione dall’impulso creativo”, Stuart decide, a un passo dal coronamento delle sue ricerche, di fare un passo indietro e di ritirarsi dal mondo scientifico. Perduto il suo amore e a un passo dalla celebrità, la sua è, oltre che un rifiuto di accollarsi le responsabilità di un cattivo uso delle sue scoperte, anche una paradossale affermazione della propria individualità. Consapevole che il suo io è una menzogna, schiacciato tra il cieco egoismo del gene (citando Dawkins, “noi siamo macchine da sopravvivenza, robot semoventi programmati ciecamente per preservare quelle molecole egoiste note sotto il nome di geni”) e il gretto conformismo della popolazione (che porta a negoziare le proprie idee e la propria conoscenza in cambio di fama, soldi e potere), Stuart sceglie di sprofondare nell’oblio e di vivere una sorta di esistenza monacale, esiliandosi in un qualsiasi centro di elaborazione dati di New York, lontano dai riflettori del mondo, anonimo e misconosciuto, almeno fino al momento in cui la caparbia curiosità di un collega di lavoro e di una bibliotecaria deciderà di riportare in luce il suo passato e ristabilire in extremis la sua ignorata grandezza. Stuart è un personaggio autenticamente tragico, un moderno Prometeo che spinge il fardello celibe e privo di discendenza della sua vita come l’eroe del mito faceva con il suo gigantesco masso, con una virile dignità e una umile fierezza. L’uomo per Powers è un mistero, forse il più grande dell’universo. Lungi dal ridurlo a una mera risultante di geni capricciosi, lo scrittore americano lo descrive come un affascinante enigma, qualcosa di misteriosamente diverso e superiore al prodotto di stringhe di nucleotidi autoreplicanti e di complicati meccanismi neurologici.
“Può una cosa così eterogenea come la curiosità essere rivelata da un set di equivalenze?”, si domanda a un certo punto la narratrice. Possono, aggiungo io, sentimenti come l’amore, l’amicizia, la fedeltà essere descritti con il linguaggio della chimica e della biologia? Questo è l’originale esperimento che Powers ha tentato in “Canone del desiderio”, un romanzo che è uno strano ibrido, volta a volta saggio sulla scienza e sulla musica, storia d’amore e perfino quest investigativa (chi è realmente Stuart Ressler e perché ha rinunciato a svelare il segreto del DNA quando era ormai a un passo dal traguardo? E dove è finito Franklin, la cui unica traccia lasciata a Jan dopo essere partito è la cartolina di un dipinto del pittore fiammingo Herri met de Bles? E, ovviamente, quale segreto è nascosto nel DNA, quale è il codice da utilizzare per decifrare il suo crittogramma, non dissimilmente dalla mappa del tesoro scritta con l’inchiostro simpatico del racconto “Lo scarabeo d’oro” di Poe?). Strutturato in diverse fasi temporali (non a caso Powers, secondo cui “il tempo è l’autore degli autori”, è un maestro delle sovrapposizioni cronologiche), “Canone del desiderio” è un romanzo che sembra obbedire al principio che “tutte le cose che potrebbero essere, possono essere”, anche che un personaggio morto da diversi mesi possa tornare a parlare, per mezzo di un “benevolo” virus informatico, dall’altoparlante di una postazione bancomat, e che una storia d’amore fallita nel passato possa rinascere ed essere coronata dalla felicità, grazie alla demiurgica intercessione di un marito e di un padre mancato, venticinque anni dopo. “Le parole sono un insidioso sestante, una mediocre controfigura della cosa che rappresentano”, si legge in “Canone del desiderio”. Ma le parole di Powers riescono nondimeno a essere un prodigio di tecnica, di raffinatezza e di sensibilità, una gioia ineguagliabile per il lettore più esigente, anche se è triste pensare che solo la recente vittoria del Premio Pulitzer con “Il sorriso del mondo” ha permesso di veder pubblicato in Italia per la prima volta, a distanza di quasi trent’anni, un simile capolavoro. Negli anni ’50 c’era una pubblicità con Virna Lisi che diceva più o meno “Con quella bocca può dire ciò che vuole”. Ebbene, con l’autore di “Canone del desiderio” si può affermare più o meno la stessa cosa: che si tratti della composizione dell’acido desossiribonucleico o della descrizione di una fuga musicale, con la sua ispiratissima penna, Powers può permettersi davvero di scrivere tutto ciò che vuole.
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Non ho mai letto il celebre autore, ma ne sono molto incuriosito. Tutti ne parlano benissimo, tanto che ho in lista tre suoi titoli, tra cui questo; gli altri due sono "Il sussurro del mondo" e "il tempo di una canzone" .
Non so quale sia il libro con cui sia meglio cominciare ; per me è importante non essere deluso al primo tentativo, altrimenti rischierei di chiudere con tanto autore. Un tuo parere al riguardo?
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