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Le anatre di Central Park
Dopo una lunga e colpevole pausa durata ben 6 mesi, durante i quali non ho pubblicato alcuna recensione ma ho continuato a leggere con curiosità tutte le vostre interessanti opinioni, torno finalmente ad inserire un mio commento.
E decido di ripartire da uno dei molti romanzi letti durante quel periodo che, tanto per non perdere il vizio di utilizzare sempre più spesso termini inglesi, è stato ribattezzato come “lockdown”. Dal 9 marzo al 3 maggio. 57 giorni. Durante i quali ho apprezzato ancora di più il silenzio che circonda una lettura attenta. Lo esigono le pagine. E i pensieri. Perché in quei 57 giorni è stata l’unica forma di silenzio a non essere pervasa da malinconia e consapevolezza.
Riparto dunque da un grande classico della letteratura, “Il giovane Holden” di Salinger.
La vicenda, ambientata verosimilmente nel 1949 e non priva di riferimenti autobiografici, è arcinota. Intere generazioni di lettori hanno immaginato di trascorrere a fianco del protagonista il fine settimana in cui si sviluppa la storia, dalla decisione di abbandonare l’istituto scolastico Pencey fino all’arrivo di Holden a New York, cercando di ritardare il più a lungo possibile il momento in cui dovrà annunciare ai propri genitori la notizia dell’ennesimo fallimento scolastico.
Desidero soffermarmi sul perché alcuni romanzi siano ritenuti immortali.
Perché un libro come “Il giovane Holden” viene citato da Woody Allen in “Io e Annie”, da Stanley Kubrick in “Shining”, da Haruki Murakami in “Norwegian Wood”, da Stephen King in “22/11/’63”, da Charles Bukowski in “Panino al prosciutto” o dai Green Day e dai Guns N’ Roses in ambito musicale?
Perché, soprattutto per una certa fascia di età (della quale io, con i miei 27 anni, spero ancora di far parte anche se nutro qualche perplessità a tal proposito) è considerato un testo irrinunciabile?
Certamente l’istrionico sedicenne Holden simboleggia l’avversità per la cultura di massa, per il perbenismo, per le convenzioni sociali. È un perdente. Ma un perdente geniale. Un personaggio folle, trasgressivo, fuori dagli schemi, a suo modo rivoluzionario, ma questo a mio avviso non è sufficiente a consegnare un romanzo all’immortalità letteraria.
Ho sempre pensato che, per essere considerato un grande classico della letteratura, in un libro debba essere presente almeno un frangente in cui qualsiasi lettore, che si trovi a leggere il testo a distanza di svariati decenni dalla data di pubblicazione, si sorprenda a pensare “Ecco, questo potrei essere io”.
È in quel momento che si ha la percezione di leggere qualcosa che è eterno, senza tempo.
Nell’episodio secondo me più interessante del testo, il protagonista si reca presso l’abitazione di un suo vecchio insegnante, il professor Antolini.
Ed è proprio il professore a dire ad Holden qualcosa che il giovane protagonista, “stanco morto”, non riesce subito a comprendere.
“Non voglio spaventarti. Ma mi riesce molto facile immaginare che tu muoia nobilmente, in un modo o nell’altro, per una qualche causa che non lo merita affatto”.
“Ciò che contraddistingue l’uomo immaturo è che vuole morire nobilmente per una causa, mentre ciò che contraddistingue l’uomo maturo è che vuole vivere umilmente per essa”.
“Comincerai ad avvicinarti sempre di più, ammesso che tu lo voglia e che tu sappia cercare e attendere, al genere di conoscenze che finirà per occupare un posto molto, molto importante nel tuo cuore. Tra le altre cose, scoprirai di non essere stato il primo a sentirsi confuso, e spaventato, e perfino disgustato dai comportamenti umani. Non sei affatto solo, in tutto questo, e scoprirlo sarà emozionante e stimolante. Tanti altri uomini hanno provato lo stesso turbamento morale e spirituale che provi tu ora. Fortunatamente, alcuni di loro hanno messo questi turbamenti per iscritto. Tu imparerai da loro, se vorrai. Così come un giorno, se avrai qualcosa da offrire, qualcun altro imparerà da te. È un magnifico accordo reciproco. E non è istruzione. È storia. È poesia”.
Ho letto queste parole. Ho chiuso il libro. Ho ripensato ad alcuni momenti della mia adolescenza, ai miei 16 anni. Sfido chiunque a non essere stato, anche per un solo giorno, un idealista che flirta pericolosamente con la sconfitta, un sognatore che lotta per una causa senza speranza. A non avercela avuta con il mondo intero percepito come ipocrita. A non essersi mai sentito completamente fuori posto. Credo che il professor Antolini avrebbe potuto dedicarmi queste parole. Ed avrebbe avuto ragione. E forse a 16 anni non le avrei apprezzate, né tantomeno capite. Proprio come Holden. Ma ora invece si. È passato un decennio, e credo sia un lasso di tempo abbastanza lungo per analizzare alcuni passaggi della propria adolescenza con sufficiente distacco, esperienza e lucidità. E forse anche io ho lottato nobilmente per una qualche causa che non lo meritava affatto. E nonostante non abbia ancora deciso se ne sia valsa la pena o meno, spero di aver intrapreso la strada verso la piena maturità, la vera conoscenza. E spero che tale strada sia infinita, senza sfondo. Proprio come il professore Antolini si augurava che facesse Holden.
E quindi si, secondo me “Il giovane Holden” è un vero grande classico della letteratura. A 16 anni non avrò vissuto un fine settimana avventuroso e rocambolesco come quello narrato nel romanzo. Ma in quelle affermazioni, con le dovute proporzioni, ho ritrovato una parte di me stesso. E mi sono emozionato, in una sorta di nostalgica e tenera catarsi. È uno dei poteri magici della letteratura, forse uno dei più importanti.
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Penso di essere fra i pochi a non aver letto questo libro.
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