Dettagli Recensione
Tre donne
Bisogna possedere molto garbo ed eleganza per scrivere un libro ambizioso e fragile come questo, un libro che affonda le sue radici nella vita tormentata di Virginia Woolf e sul suo romanzo “La signora Dalloway”, intrecciando la storia di tre donne chiamate ad affrontare la domanda atroce: vale davvero la pena vivere? E tanto più tatto è necessario se si decide di aprire il libro con il suicidio della Woolf, che si abbandona al flusso dell’acqua inchiodata sul fondo dalle pietre che si è curata di afferrare. “Le ore” è la storia di Virginia, ma anche quella di Laura Brown, casalinga californiana alle prese l’aria di piombo della sua modesta vita coniugale nel secondo dopoguerra e quella di Clarissa, editor newyorkese che deve organizzare una festa per un suo amico terminalmente malato di AIDS. Cunningham sa indubbiamente scrivere e non mancano, specie nella prima metà del primo, scene decisamente riuscite come quella di Laura crucciata per una torta che non sa realizzare come davvero vorrebbe o quella di Clarissa che compra fiori nell’aria di vetro di una mattina splendente, o ancora quella di Virginia che mette mani alla prime righe del suo famoso romanzo. Eppure c’è qualcosa, da subito, che stona: lo stile appare sempre un pelo troppo contraffatto, ripulito, studiato, uno stile da scuola di scrittura che sa mettere la parola giusta al posto giusto, ma allo stesso tempo imbarbarire la voce vera dell’autore, oppure l’evidenza delle linee geometriche che uniscono in un preciso gioco di parallelismi le vite delle tre donne. C’è molto studio in questo “Le ore”, molta anche dedizione e credo passione, ma anche le stigmate di alcune derive della scrittura più recente: le pagine dedicate a Clarissa sono così newyorkesi nei commenti e nei modi che viene quasi da credere che se si è scrittori nella Grande Mela, non si possa scrivere altrimenti. L’effetto complessivo è un libro scritto correttamente, ma forse privo di autenticità, in cui il gusto per la geometria ha fatto perdere di vista il messaggio profondo della vita di Virginia Woolf, sfruttando la sua esistenza per parlare di altre donne e altre vite che, loro malgrado, la involgariscono. Conferma lo studio editoriale che sorregge il Pulitzer di Cunningham, il fatto che per attirare l’attenzione del pubblico il libro si apra con il suicidio della Woolf, in piena asincronia con tutto quello che poi viene detto e fatto vedere.
Complessivamente un libro che non posso dire essere brutto e che si lascia leggere con gradevolezza, ma che fallisce nell’avere una sua voce distintiva, un suo messaggio autentico, nascondendosi dietro le pagine della Woolf, ma non avendone certo l’armoniosa melodia e l’amara consapevolezza. Il risultato è che delle tre storie, forse solo una si salva: non quella della Woolf, che si perde nel vuoto, non quella di Clarissa che appare per lo meno pleonastica, ma quella di Laura Brown, che leggendo “La signora Dalloway” vive su di sé il trasporto tremendo e l’identificazione risoluta che qualche lettore a volte ha la fortuna di sperimentare con un certo personaggio. Nella sua parabola, così scarna se si vuole, ma così asciugata da risultare essenziale, si avverte per un istante il polso del talento dell’autore, che però consegna un libro più debole che dolce, più suggestivo nelle premesse che riuscito nella conclusione. Devo però dire che il film che ne è stato tratto, con, tra le altre, Maryl Streep (come Clarissa) e Nicole Kidman (Virginia Woolf), merita una visione: il montaggio e le interpretazioni delle attrici sanno nobilitare il libro di Cunningham e lasciare un’evocativa atmosfera al termine della visione.
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