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PATRIE E PERSONE
“Tutti i bei ricordi le si presentarono di colpo […] come quelle foglie con una faccia di un colore e l’altra di un altro, una di un verde brillante, piacevole a vedersi, l’altra di un verde più pallido che era il verde della colpa e dei rimorsi. Si guardava le mani e si pentiva di essere stata giovane; o peggio, di essere stata felice.”
“Patria” di Fernando Aramburu è stato uno dei più grandi e inaspettati successi della narrativa europea del XXI secolo. Mi è parso interessante verificare, a distanza di quattro anni dalla sua pubblicazione, se i motivi che hanno portato il romanzo a ricevere il plauso quasi unanime del pubblico internazionale (spesso appannaggio esclusivo della letteratura più commerciale) fossero suffragati da valide ragioni di natura più prettamente artistica. La prima cosa che mi viene da dire è che “Patria” è un’opera innestata in una realtà molto circoscritta (un piccolo paese basco dove gli abitanti esprimono con fierezza ambizioni indipendentistiche, dove tutti parlano la lingua “euskera” al posto del castigliano, dove imperversa la lotta armata dell’ETA contro uomini e istituzioni dello Stato spagnolo), ma che ha risonanze tali da poter essere considerato un libro praticamente universale. Il lettore italiano, nello scorrere le vicende delle due famiglie del Txato e di Joxian, dapprima amiche per la pelle e poi irreparabilmente divise dalle sanguinose ferite inferte dal terrorismo basco, può riandare con la mente agli anni di piombo, quello britannico al periodo della guerra dell’IRA, e tutti probabilmente pensare a quanto il conflitto dell’ETA contro lo Stato spagnolo assomigli all’Intifada palestinese. “Patria” tocca perciò corde ampiamente condivisibili dalla vasta platea dei suoi lettori. In più lo fa con una struttura narrativa molto originale, partendo cioè da un punto della storia dove quasi tutto (l’omicidio del Txato, l’arresto di Joxe Mari) è già avvenuto e andando avanti e indietro nel tempo per ricostruirla in maniera per così dire a-cronologica, seguendo, nel corso di brevi e concisi capitoli, le vicissitudini alternate dei suoi sette personaggi. “Patria” diventa così un complesso libro sul tempo e sulla memoria, dove il film dei ricordi si dipana rapsodicamente in scene che sono “frammenti di vetro come una bottiglia caduta a terra. E in ogni coccio, un ricordo, un episodio, le ombre e le figure disperse del passato”. Il passato viene evocato a partire da fatti insignificanti (il riflesso della luce mattutina sulla bicicletta del marito per Miren, il rosso del sangue di un prelievo per Xabier, con l’effetto di far riaffiorare rispettivamente il confronto violento con il figlio nella cucina di casa per la prima e l’avvertimento di correre subito a casa perché era accaduto qualcosa di grave a suo padre per il secondo), come a sancire che certi ricordi rimangono inesorabilmente “a risuonare dentro in un presente interminabile, bruscamente congedato dal fluire del tempo”. Pur essendo un romanzo apparentemente ondivago, “Patria” ruota ossessivamente, compulsivamente, intorno a un nucleo centrale, che è l’omicidio del Txato, come se quell’avvenimento avesse cristallizzato tutto, bloccandolo in un eterno presente, da cui, come in sortilegio maligno, è impossibile liberarsi. Si può dire addirittura, con le parole di Xabier (“Ho finito l’università sette mesi prima di, ho partecipato a quel congresso a Monaco nove anni dopo che”), che tutti gli avvenimenti sono accaduti a una determinata distanza di tempo dall’assassinio del padre, il quale diventa perciò un fatidico spartiacque, proprio come la nascita di Cristo rispetto agli avvenimenti storici. Anche gli altri personaggi del romanzo, attraverso i loro ricordi, riflettono incessantemente le ripercussioni di un tragico accadimento che ha cambiato la vita di tutti, una volta per sempre, come un terremoto che ha distrutto case e scavato voragini. La difficoltà di elaborare il lutto (anzi, i lutti, perché l’arresto di Joxe Mari pareggia in un certo senso la morte del Txato), di riconciliarsi con il passato (Nerea rinfaccia al fratello: «Siete emotivamente bloccati. Tu e l’ama siete in un buco di pena e di rancore e di malinconia dal quale non potete uscire e da cui non so se volete uscire»), di sbrogliare l’ingarbugliata matassa dei rancori reciproci (ognuno si sente in qualche modo vittima, anche la madre del terrorista, che afferma: «Siamo vittime dello Stato e adesso siamo vittime delle vittime»), rinchiude la vicenda in un circolo vizioso, in cui le emozioni, i sentimenti, i sogni e le speranze sono condannati a implodere e a non riuscire a trovare uno sfogo, una via di uscita. Come in una faida, le due famiglie (una volta amiche, e ora ognuna dalla parte opposta di una invisibile barricata eretta da assurde e aprioristiche ideologie di cui non si riesce mai ad afferrare pienamente la logica) sono costrette a vivere in uno stato bloccato di odi e di recriminazioni, diventando i simboli di tutti quei conflitti storico-politici-sociali che negli ultimi decenni hanno contrassegnato, con la loro irriducibilità, la storia del mondo contemporaneo, lasciandosi alle spalle innumerevoli sofferenze e sventure. L’assassinio del Txato diventa così un simbolico buco nero in cui non solo collassano le sorti delle due famiglie protagoniste, ma precipita anche la coscienza dell’intera collettività. E’ solo l’intervento coraggioso di chi non ha più nulla da perdere (e che è quindi capace di ragionare non per partito preso, non con pregiudizi e opinioni prefabbricate, ma seguendo la semplice forza dei sentimenti), e cioè una donna costretta sulla sedia a rotelle da un ictus e capace di parlare solo per mezzo di un iPad, una madre malata terminale di cancro e conscia di avere pochi giorni da vivere e un terrorista condannato a 120 anni di carcere e in crisi di identità, a permettere di cambiare le cose e far sì che gli strappi, poco a poco, si ricuciano e le distanze, sia pure a fatica, si riducano, riportando, se non la serenità, almeno il conforto del pentimento e della riconciliazione.
Teso come un thriller (chi ha sparato al Txato?), avvincente come un romanzo storico, umanamente variegato come una saga familiare, “Patria” riesce a mantenere livelli altissimi per la gran parte delle sue pagine. Purtroppo il finale non riesce ad essere all’altezza del resto, non tanto per il suo tono buonista e consolatorio, quanto per la sua prevedibilità (gli ultimi capitoli risultano praticamente pleonastici) e per la sua ansia di volere a tutti i costi far quadrare i conti e chiudere il cerchio (come recita anche il titolo del terzultimo capitolo) della storia, quando forse avrebbe giovato una maggiore incompiutezza, quasi che volere sigillare la vicenda e suggellarla con una morale facilmente leggibile tra le righe togliesse quel pathos dovuto all’imprevedibile, all’ingovernabile e all’indeterminato. E’ un po’ come quando ci si accinge a fare un puzzle, consapevoli che il fascino del passatempo consiste nel vedere comporsi dal nulla, poco a poco e a fatica, il disegno complessivo, mentre gli ultimi pezzi mancanti scorrono via in maniera quasi automatica, senza alcuno sforzo gratificante. Nonostante questa riserva, Aramburu dimostra di possedere quella equanimità, quella obiettività, quella capacità di mantenere la distanza emotiva dagli scottanti fatti narrati, che solo i grandi autori hanno (un solo, significativo, esempio: il Vasilij Grossman di “Vita e destino”). Inoltre lo scrittore spagnolo, pur sapendo perfettamente calarsi nel clima storico, non perde mai di vista i suoi personaggi, ritratti affettuosamente nelle loro normali occupazioni, con i loro tic, i loro difetti e le loro idiosincrasie. Il climax drammatico viene così stemperato di frequente da momenti più leggeri, soprattutto nella rappresentazione della vita domestica delle due famiglie (i battibecchi tra Bittori e il Taxto o tra Miren e Joxian sono impagabili), determinando quella alternanza tra tragedia e commedia che da sempre (penso ad esempio a Shakespeare) caratterizza tutti gli autentici capolavori. Lo stile di Aramburu è semplice e scorrevole, teso a riprodurre un tono il più possibile prosaico e colloquiale (cosa che gli si fa perdonare espressioni altrimenti orribili del tipo “Nerea era innamorata dalla testa ai piedi e ritorno”). Da questo proposito derivano alcuni inconfondibili vezzi stilistici, come l’alternanza, persino nella stessa frase, della terza e della prima persona (“Bittori, gli occhi asciutti, perché io d’ora in avanti non piangerò nemmeno se me li sfregano con la cipolla, pensò che la prossima volta che entrerà luce in questo buco sarà quando seppelliranno me”), la preoccupazione di definire in maniera psicologicamente precisa una sensazione o una situazione, usando prima un aggettivo e subito dopo – in forma dubitativa, con il punto interrogativo – un secondo aggettivo (“D’altra parte le era difficile, impossibile?, cancellare otto anni di ricordi dolorosi”), oppure accostando due aggettivi divisi tra loro da una barra obliqua (“Il timore… era là, dentro di lei come dolore sordo/vago ma non per quello meno bruciante”), l’abitudine di usare all’interno di una frase una domanda (“A Bittori non era sfuggito un gesto dell’ospite. Quale? Be’, che credendo che nessuno la vedesse, …”), l’uso di piccole ellissi nei discorsi indiretti (“Stava perdendo la pazienza, alzava la voce, gli disse che e lo minacciò di”), ecc. C’è in “Patria” una naïveté, una immediatezza stilistica, che non deve trarre in inganno, dal momento che dietro ad essa è facile intuire una profonda consapevolezza da parte dell’autore dei propri mezzi espressivi. Di “Patria” si conserva al termine della lettura una impressione molto vivida: personaggi fieri, severi, eppure teneri dietro al loro costante cipiglio, come Miren e Bittori, oppure ripiegati in un autodistruttivo dolore, come Xabier (che ritiene “indegno cercare di strappare alla vita pezzi di felicità” dopo la morte del padre, provando “una specie di repulsione nei confronti dell’allegria”), non si dimenticano facilmente, così come incisa profondamente nelle pagine appare l’umanistica convinzione dell’autore che nessuna causa, per quanto importante e giusta, nessuna guerra, per quanto santa (e Aramburu si guarda bene dall’entrare nel merito delle rivendicazioni dell’indipendentismo basco o delle ragioni della repressione dello Stato spagnolo), può far dimenticare le sofferenze e le ingiustizie patite dai singoli individui, e che assai più che le patrie (labili concetti dietro a cui spesso si nascondono interessi ben poco nobili) a contare sono alla fin fine, soprattutto, le persone.
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