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Hannah e Michael
“Scrivo questa storia perché le persone che ho amato sono morte. Scrivo questa storia perché quando ero giovane avevo una grande capacità di amare, e ora questa capacità di amare sta morendo. Ma io non voglio morire.”
Questo l’incipit di “Michael mio” di Amos Oz: un romanzo che ci porta nel desolato paesaggio di un matrimonio inaridito e nella calma e, allo stesso tempo, disperata tristezza di Hannah.
Due giovani come tanti altri, frequentano l’Università: lui è iscritto a Geologia, lei a Letteratura. Una mattina si incontrano per caso sulle scale del collegio Terra Sancta di Gerusalemme, lei aveva perso l’equilibrio e lui l’afferra per un braccio, evitandole una brutta caduta. Una storia come tante altre quella di Hannah e Michael: si piacciono, iniziano a frequentarsi. Sono giovani, hanno voglia di costruire un futuro insieme. Lei crede di volere un uomo come Michael, affidabile, responsabile, razionale e studioso; comprende quasi subito che lui è anche noioso ma, da brava ventenne degli anni Cinquanta del Novecento, non dà molto spazio a questi segnali di allarme: lo sposa quasi subito.
Da quel momento assistiamo -attraverso le sue stesse parole perché è proprio lei la voce narrante del romanzo-, al lento ed inesorabile spegnimento di Hannah. Apparentemente non dovrebbe andare così: Michael è un bravo marito, studia e lavora incessantemente, la ama di un amore sobrio e maturo, razionale e costruttivo. Molto presto hanno un figlio, Yair. Nemmeno la maternità sembra dare un senso alla vita di Hannah: ma cosa starà cercando? Perché non si sa accontentare della serena freddezza e malinconica solidità della sua esistenza?
E’ come il canto lugubre e nascosto di una creatura insoddisfatta ma che non si oppone alla corrente degli eventi, questo romanzo. Hannah continua a sognare, ad occhi aperti e nel sonno; Hannah continua a seguire la direzione del vento che la spinge verso la sua quotidianità. Lentamente la abbandonano, uno dopo l’altro, strati di vitalità e gioia di vivere in un vortice triste ed inesorabile ma mai disperato o spaventoso. Come il sopraggiungere dell’autunno, come diventare vecchi: un lento declino avvolge ogni cosa nelle profondità malinconiche dell’ineluttabile, di ciò che deve essere, di ciò che sarà.
“La terribile monotonia dei giorni. L’autunno sta arrivando. Nel pomeriggio il sole illumina la finestra rivolta verso ovest, proiettando disegni di luce sul tappeto e sulla fodera delle poltrone. A ogni movimento delle cime degli alberi, fuori, i disegni di luce oscillano dolcemente. Cambiano forma, continuamente, in modi complicati. Al tramonto i rami dell’albero di fichi sembrano infuocati. Le voci dei bambini che giocano in cortile suggeriscono una lontana ferocia. L’autunno sta arrivando. Mio padre diceva che in autunno la gente è più calma e più saggia.
Essere calmi e saggi: che monotonia!”
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Commenti
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Un caro saluto e ancora grazie,
Chiara
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Tu, come lettrice, che cosa ne pensi?