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Fuga dal tempo
Un breve romanzo dai forti tratti allegorici, tra la fiaba e il noir, con una chiusura che pare un corpo estraneo al lento sviluppo precedente, segna l’ esordio letterario di Jenny Erpenbeck (1999), scrittrice tedesca contemporanea.
Una scrittura piana, spoglia, apparentemente distaccata ma intensamente partecipativa, con forti connotazioni psicologiche e una delicatezza di sentimenti a contrastare una certa ruvidezza di contenuti.
Una ragazzina silente con un secchio vuoto in mano rinvenuta in una via piena di negozi e inutilmente interrogata dalla polizia, lei non ricorda nemmeno il suo nome, ne’ dove sia la sua casa, sa solo di avere quattordici anni. È grande e grossa, sgraziata, con un faccione chiazzato, le spalle larghe di una nuotatrice, i capelli di un colore indefinito e si muove lentamente, completamente avvolta nel nulla con qualcosa di imperscrutabile dentro.
Viene inviata in un orfanotrofio nella periferia cittadina, un luogo in cui non c’è neanche la possibilità di specchiarsi ed è assai improbabile che qualcuno la riporti nel mondo. A poco a poco in lei prevale il silenzio, solo cenni del capo, ascolta e non risponde, si mimetizza, sparisce per tornare a essere.
I compagni non la comprendono, per lo più la ignorano, lei d’altronde fa di tutto per essere invisibile, lascia scivolare via ogni parola e pensiero e sta seduta, sola, come una pagina bianca. La sua lentezza e stupidità elevano le qualità altrui, apprezza questa sensazione di inadeguatezza, di occupare senza sforzo e stabilmente l’ ultimo posto senza essere contesa, avvolta da inferiorità e colpevolezza, arrivando la’ dove gli altri sono in procinto di andarsene.
Del resto e’ talmente debole e incapace, un caso disperato, che non resta che lasciarla perdere, una ragazzina che manifesta una certa insicurezza verso i compagni ma in grado di indirizzare gli adulti dove meglio crede.
Tuttavia possiede un forte spirito di squadra che il suo corpo non riesce a supportare e si adegua benissimo alle scadenze che regolano la vita dell’istituto, la sua sottomissione interiore è perfetta e la sua obbedienza anticipatrice.
Un corpo così abbondante contrasta con una salute cagionevole, spesso la ragazzina si ammala, mentre il fatto che si parli e si sparli di lei e la si prenda di mira è un modo per esserci e uscire dal nulla.
Un giorno qualcosa cambia e la consegna alla consapevolezza altrui che ci si possa fidare di lei, della sua neutralità, finalmente riconosce i nomi dei compagni, partecipa ai loro giuochi, viene tollerata, nel mondo c’è un piccolo posto anche per lei, di tanto in tanto qualcuno le pone una domanda a cui risponde con un si’ o con un no.
Tutte le storie ricadono nella sua mente offuscata e lì riposano, senza mai essere restituite, come fa con il cibo, con la stessa voracità, ma quando gli altri le confessano qualcosa si limitano a esprimerlo ad alta voce.
E, oggi che è in grado di vedere meglio, si accorge di quanto varie siano le persone che le si muovono attorno e non riesce più a decidersi per la cosa giusta, non sapendo quale sia, una sensibilità che deve sopportare l’ inadeguatezza e indifferenza altrui.
Una caduta, la malattia, il progressivo isolamento, il silenzio e il distacco, delle lettere provenienti dal passato, il dimagrimento, un terribile segreto, la dimenticanza.
Dietro ogni storia sopravvive un passato, spesso di sofferenza, coperto da altro, dal desiderio, più o meno consapevole, di ovattare e dimenticare, semplicemente di vivere, o di sopravvivere, un passato che riemerge, forte, improvviso, scoperchiando una verità sorprendente agli occhi altrui o semplicemente la fine di un sogno, il proprio, la’ dove si era cercato inutilmente di fermare il tempo.