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La linea del sangue
 
La linea del sangue 2020-07-31 14:38:02 kafka62
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kafka62 Opinione inserita da kafka62    31 Luglio, 2020
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MISERIA E SPLENDORE NEL BAYOU

“Now, when I was just a little boy
Standin' to my Daddy's knee
My Poppa said "Son, don't let the man get you do what he done to me"
'Cause he'll get you
'Cause he'll get you now, now”
(da “Born on the bayou”, Creedence Clearwater Revival)

Nel suo memoriale del 2013, “Men we reaped” (di prossima pubblicazione in Italia presso l’editore NN), Jesmyn Ward parla del suo fratello minore, ucciso nel 2000 da un autista ubriaco, e di altri quattro ragazzi di colore della sua cittadina natale, DeLisle, morti nello stesso periodo per cause diverse (un omicidio, un’overdose, un suicidio, un incidente automobilistico), ma tutte quante in qualche modo legate alle tristemente note condizioni in cui la popolazione nera vive ancora oggi in America. La Ward, la cui vita per certi aspetti è già un romanzo (lei e la sua famiglia cercarono di sfuggire nel 2005 all’uragano Katrina, ma rimasero incagliati con l’automobile in un campo pieno di trattori, e, quando furono ritrovati, si videro rifiutati l’assistenza e il rifugio dai proprietari bianchi del terreno), ha sempre inserito nei suoi libri temi come la violenza, il razzismo, la povertà. “La linea del sangue”, che chiude la trilogia di Bois Sauvage (ma che in realtà ne è il principio, essendo il romanzo d’esordio della scrittrice), non fa eccezione, raccontando un mondo in cui un giovane di colore trova di fronte a sé, una volta conclusi gli studi, due sole prospettive: un lavoro faticoso e mal pagato come cameriere a un McDonald’s o come scaricatore al porto (se è fortunato) oppure un futuro da piccolo spacciatore o da tossicodipendente (se la fortuna invece non gli arride). Per rappresentare questa tragica alternativa la scrittrice di DeLisle sceglie come protagonisti due gemelli, Joshua e Christophe, una coppia indissolubile fin dalla più tenera età (come il bellissimo prologo evidenzia alla perfezione, con la lirica immagine dei due ragazzi che si tuffano abbracciati, saltando da un ponte nel fiume sottostante) ma che le circostanze della vita si incaricano di dividere crudelmente. Niente di particolarmente originale – si dirà -, la cultura occidentale è piena di storie di fratelli dai destini opposti, da Caino e Abele a “Rocco e i suoi fratelli” alla “Trilogia della città di K.”. A fare da originale sfondo alla vicenda è però questa volta il bayou, una terra poco frequentata dalla letteratura statunitense e che la Ward descrive impressionisticamente, facendo percepire al lettore il calore ubriacante che cuoce le cose e le persone, la polvere argillosa che penetra nelle rughe e nelle narici, il tanfo salmastro delle paludi, il rumore sfrigolante degli insetti, i latrati dei cani randagi, lo strisciare dei serpenti nella macchia, lo scorrere impetuoso delle nuvole nel cielo e l’abbagliante fiammeggiare dei tramonti: una terra ostile e inospitale, spazzata periodicamente da violentissimi uragani (che sembrano rappresentare ipostaticamente la condizione esistenziale dei suoi abitanti), ma che pure (come pensa più volte Christophe, incantato da quel paesaggio primordiale da cui non vorrebbe mai allontanarsi) possiede una strana, inspiegabile bellezza, quella stessa armonia che percepiamo ogni volta che ci accingiamo ad ascoltare i blues aspri e ferrigni di un Howlin’ Wolf o di un Muddy Waters. Non è stata facile la vita per Joshua e Christophe, cresciuti fin dai primi anni dalla nonna materna, in quanto i genitori (la madre allontanatasi da casa per cercare fortuna ad Atlanta, il padre tossicodipendente) sono sempre stati assenti dalle loro vite. Quello delle famiglie disfunzionali è un vero e proprio leitmotiv della trilogia (ricordiamo la famiglia Batiste di “Salvare le ossa”, con la madre che ha lasciato orfani Esch e i suoi fratelli dopo essere morta di parto e il padre violento e prevaricatore, oppure quella di Jojo in “Canta, spirito, canta”, con la madre anaffettiva e con problemi di droga e il padre rinchiuso da tempo in carcere). Nonostante la colpevole assenza dei genitori, i vincoli familiari riescono ugualmente nei romanzi della Ward a ricomporsi e a trovare un nuovo equilibrio, con nonni e fratelli maggiori a fare da padre o da madre (come Randall con il fratellino Junior o Jojo con la piccola Kayla). Ne “La linea del sangue”, nonostante le proteste di Cille (“Eppure quella più importante per loro sono io, sono sangue del mio sangue, figurati se non li conosco, sono io la madre”), è la nonna Ma-mee ad essere la figura affettiva di riferimento. Quando Cille viene in visita a Bois Sauvage per qualche giorno, la Ward architetta una atroce scena familiare in cui la cortesia di facciata e il finto interesse per il futuro dei figli non riescono a nascondere l’egoismo e l’indifferenza della donna (“Ma-mee sentì una corrente d’aria fredda passare tra lei e la figlia […] e avvertì la preoccupazione evaporare dalla voce della figlia come pioggia sul fianco caldo di un cavallo”), la quale se ne sta seduta discosta sul divano, arrotolandosi distrattamente le ciocche dei capelli per vincere l’imbarazzo che grava nella stanza. La figura del padre, il tossico Sandman, che si aggira per le strade di Bois Sauvage come uno spettro lurido e barcollante, è anche peggiore, e la sua inquietante ricomparsa dopo anni di assenza fa addirittura precipitare tragicamente gli eventi. Jesmyn Ward ama però visceralmente i suoi personaggi, e non vuole togliere loro, come forse farebbe la vita nella realtà non romanzata, la speranza. Il mondo è duro, l’esistenza non fa sconti a nessuno, ma Joshua e Christophe sono forniti di una dote fondamentale, la resilienza, che li fa piegare ma mai spezzare del tutto. Nella stupenda e metaforica immagine finale, la Ward li paragona a quei pesciolini che, presi all’amo e ributtati feriti nel fiume, sanno sopravvivere, “danneggiati e scaltri”, alle “cicatrici lasciate dal morso degli ami” per “ricordare la breve permanenza nel deserto rarefatto dell’aria, le labbra che insegnano ai figli l’odore del metallo nell’acqua, il pericolo.”
“La linea del sangue non possiede il ritmo incalzante e la suspense irresistibile di “Salvare le ossa”, e neppure quell’originale e potente commistione di realismo e soprannaturale capace di elevare “Canta, spirito, canta” dalla prosaicità della storia raccontata, eppure è ugualmente un romanzo del tutto maturo e soddisfacente. L’inconfondibile stile della Ward, caratterizzato da una carica metaforica che permette di fondere i personaggi con la natura che li circonda, è già in grado qui di dispiegarsi in tutto il suo lirico splendore. Nelle pagine del romanzo le similitudini e le analogie scaturiscono con una straordinaria immediatezza e spontaneità, come se la sovrabbondanza di odori, suoni e sensazioni del bayou costituisse un motivo irresistibile di ispirazione. Frasi come “Sospirò, e sentì il viso e la voce di sua madre staccarsi e volar via dal suo cervello come il petalo di un fiore” ci fanno credere che la poeticità della Ward non sia frutto (almeno in apparenza) di una complessa ed elaborata costruzione teorica, ma sgorghi semplicemente, naturalmente, senza mediazioni intellettuali, dal paesaggio stesso. E così i nugoli di moscerini ronzano intorno alle teste come aureole, il dolore per la morte del marito è per Ma-mee “un incendio che l’aveva attraversata da capo a piedi, lasciandola annerita e sterile come un tratto di foresta arsa da un fulmine”, la strada all’interno del bayou si snoda “come una vena lungo il corpo del paese”, il dolore che Christophe sente al petto alla vista del padre è “un uccello ingabbiato che sbatteva le ali”, i capelli di Laila sono come un covone di fieno, ascoltare Al Green è “come tuffarsi nel fiume per la prima volta dopo un inverno gelido”, e così via. Jesmyn Ward non arretra neppure di fronte ai simbolismi, correndo consapevolmente il rischio di apparire didascalica: le ferite alle mani che Joshua si è procurato al lavoro assomigliano alle stimmate di un santo, mentre il taglio sulla lingua che Christophe si è inavvertitamente inferto con una lametta mentre cercava di assaggiare della coca sembra connotarlo diabolicamente (la lingua biforcuta del demonio). In realtà, i personaggi della Ward non rimandano ad altri che a se stessi, sono esseri fatti di pelle, di carne, di sangue, e la scrittrice ce li descrive matericamente, con i corpi solcati dal sudore, invasi dal sonno e dalla fatica, eppure sempre protesi a trascendere la loro condizione per proiettarsi nella tenace e innocente speranza di un futuro migliore. Jesmyn Ward, come ho già detto prima, li descrive con affetto, tenerezza e una smisurata empatia, soprattutto senza mai giudicarli, neppure quando commettono dei passi falsi e imboccano, come Christophe, una cattiva strada, conscia che, come diceva il mai abbastanza rimpianto Fabrizio De André in “Khorakhanè”, può essere nella posizione di condannare soltanto “chi sa di raccogliere in bocca il punto di vista di Dio”.

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"Salvare le ossa" e "Canta, spirito, canta" di Jesmyn Ward
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Bellissima recensione Giulio, grazie. Romanzo di prossima lettura per me quest'ultimo pubblicato della Ward.
In risposta ad un precedente commento
kafka62
02 Agosto, 2020
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Grazie Chiara, sono contento che Jesmyn Ward ti piaccia. Io ritengo che sia una delle migliori scrittrici contemporanee, e in questo suo romanzo d'esordio (anche se leggermente inferiore a "Salvare le ossa") il suo stile è già notevolissimo. Leggerò con piacere la tua futura recensione.
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