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Tutto era fulgore e tenebra
È un romanzo saturo, questo di Jean Rhys: saturo di colori cangianti e vivi, tropicali e violenti, saturo di una luce che non è mai trasparente, ma verde come il segreto della foresta, purpurea come il calore del sangue e scura come un cielo in tempesta. Una luce che non lascia scampo e bracca i personaggi con un calore asfissiante, esaspera le sensazioni, distorce le azioni e su tutto fa gravare il senso incombente della tragedia. È in questo mondo di feroce, limpida, involontaria violenza che si consuma e divampa la vita di Antoinette, donna a metà, né nera né bianca, ma creola, invisa tanto agli schiavi africani oramai liberati dalla legge quanto ai pallidi e aristocratici inglesi. Prima bambina, figlia di una madre che non ha saputo sopportare il peso crudele della vita e diventata folle, poi adolescente relegata in un convento dal patrigno e poi ancora donna adulta manovrata e manipolata, troppo fragile, troppo instabile, data in sposa a un uomo interessato solo al suo denaro. È la parabola di una vita che diventa un’ombra. È una storia come tante quella di Antoinette, di cui Jean Rhys ci restituisce con drammatica forza narrativa tutta la tumultuosa e incandescente violenza, in pagine che scorrono con tanta prepotenza da far vacillare tutta la struttura, perché l’urgenza di dire è così vibrante che la camera non può fare altro che stringere sempre più sui volti di Antoinette e del marito, di cui mai si scopre il nome. Entrambi si sono ritrovati incastrati: lei nei propri sogni infranti quando una protesta anticolonialista ha bruciato la sua casa e ucciso il fratello, nella inesausta ripetizione della vita di sua madre e lui nel matrimonio con una donna dal passato difficile, dal presente instabile. Qui dunque questa relazione finisce per diventare logorante, distruttiva, aterogena, insostenibile. E sullo sfondo, misteriosa e imperscrutabile, la magia antica di Josephine, la schiava nera rimasta con Antoinette, storie di zombie e vodoo che inseguono il sogno di un filtro d’amore, capace alla fine di far precipitare le nubi nerissime che si erano addensate.
Questo romanzo potrebbe apparire come poco più di una drammatica storia d’amore, ben scritta certo, ma senza molto di più. E invece è straordinario il motore narrativo di tutta la storia: la Rhys, con la storia di Antoinette, non ha solo ricostruito le tappe di una dissoluzione inesorabile, di un matrimonio fallito; non ha solo esplorato la difficile connivenza tra bianchi, neri e creoli; non ha solo riflettuto sull’inamovibile predomino che il maschio vuole sulla femmina, ma ha anche ricostruito, in un affascinante salto intertestuale, la storia del personaggio di una donna folle, moglie del protagonista maschile, che appare In Jane Eyre. Come folgorata da questa ombra letteraria, Jean Rhys le dà un volto, le restituisce una storia, le conferisce dignità e forse permette a chi ha letto Jane Eyre (purtroppo non sono tra questi) di ridefinire certe coordinate: forse il marito della donna, Mr. Rochester ha seppellito in sé più di quanto non appaia nel romanzo della Brontë, che nonostante l’indomita modernità, resta pur sempre un libro del 1847: un uomo abbastanza spietato da chiamare continuamente Antoinette, Bertha: un modo ulteriore per toglierle la libertà e l’indipendenza. Tremendo e potente il finale, che sutura il romanzo alle pagine finali di Jane Eyre. Un cerchio che si chiude nel mondo sorprendente della letteratura.
“Soprattutto odiavo lei. Perché lei apparteneva a quella magia e a quell’incanto. Mi aveva lasciato assetato e tutta la mia vita sarebbe stata sete e desiderio di ciò che avevo perduto prima ancora di trovarlo.”
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