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Il sale della terra
 
Il sale della terra 2020-07-24 19:41:50 Bruno Izzo
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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    24 Luglio, 2020
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ANCHE DA QUESTA PARTE ESISTONO I SOGNI

La cronaca spicciola nostrana certe notizie le riporta con frequenza pressoché quotidiana: sono i resoconti crudeli e agghiaccianti dei viaggi di poveri migranti disperati, in fuga dalla loro terra per i motivi più vari, ma sempre tragici, la guerra, le persecuzioni, più spesso la fame e la miseria nera.
Tra sofferenze inaudite, a rischio altissimo di perdere la vita, per di più pagando il “trasporto” alla malavita con prezzi esorbitanti in denaro, riscatti, estorsioni e violenze di ogni genere.
La motivazione che li spinge inesorabilmente ad accettare comunque ogni tipo di rischio, di pericolo e di abiezione umana però, nonostante le scarsissime, quasi nulle probabilità di successo, devono essere ben forte. Assolutamente inimmaginabile per noi privilegiati, che queste cose non le viviamo né le sperimenteremo mai in prima persona, e ci limitiamo a leggerne, magari scuotendo la testa in segno di disapprovazione.
Gli sbarchi d’immigrati clandestini continuano con flusso pressoché inarrestabile, oltretutto nessuno gradisce accoglierli.
Giungono più spesso via mare su barconi fatiscenti, causa di frequenti naufragi con relativa tragica fine delle povere vittime miseramente trasportate, colpevoli solo di essere spinte dalla fame e dalla disperazione. Moltissimi di loro spariscono durante la traversata, nell’indifferenza generale degli stessi sventurati compagni di viaggio, troppi di loro neanche arrivano a vedere perciò il profilo dell’agognata “terra promessa”, qualunque essa sia, sempre meglio del luogo di partenza.
Le organizzazioni criminali su questa disperazione prosperano, si spartiscono in competizione tra loro il nuovo business della tratta dei nuovi schiavi, si impongono con abusi, violenze, assassinii e crudeltà infinite senza riguardo per nessuno, meno che mai donne e bambini, che sono anzi le vittime predilette, quelle più ricercate per ovvi scopi di violenze e sfruttamento sessuale.
Non solo: talora i continui respingimenti delle autorità “istituzionali” vanificano tutti gli immani sacrifici fatti per partire e arrivare, come i porti chiusi, l’ostracismo “legale”, il rimpatrio coatto, e poi ancora gli inganni, le delusioni, i tradimenti, le denunce, le delazioni, le continue paure.
Eppure tutti questi viaggi, malgrado siano noti i rischi e le abiezioni, continuano ad avvenire quotidianamente, peraltro in misura crescente.
Perché il pane amaro conquistato a questo prezzo, sa di sale, è vero, è salato come il mare nemico appena attraversato, è scarso, incerto, aspro, duro, e ha in proporzione un costo esorbitante, brucia le labbra, lo stomaco, l’anima, ma è comunque pane. Meglio del nulla assoluto.
Il pane riempie e ti concede almeno un attimo di pausa, è una vera e propria panacea oppiacea.
Questa pausa ti permette di sognare, credere con tutto te stesso che da questa parte del mare esistono davvero i sogni, e sono realizzabili, è veramente possibile renderli concreti.
È tutto quanto ti resta, quando sei un migrante come questi, ma è già tanto. Tantissimo. Tutto.
Di questo ci parla nel suo libro duro e crudele, spietato quanto reale, Jeanine Cummins, racconta del sale. Il sale che secca l’esistenza di tutti i migranti di questo mondo. Già, i migranti:
“Nella peggiore delle ipotesi li percepiamo come una massa di invasori e di criminali che prosciugano le nostre risorse; nella migliore, come una folla di poveri senza volto con la carnagione scura, che chiedono aiuto a gran voce bussando alle nostre porte. Di rado pensiamo a loro come a esseri umani uguali a noi.”
Jeanine Cummins ne “Il sale della terra” ci parla semplicemente anche di questo sale che manca nella testa degli uomini.
Nello specifico, racconta di un altro tipo di sale, non quello del mare, ma quello della terra.
Non di un suolo qualunque, ma della terra più crudele e disgraziata del pianeta, a pari merito con le dune del Sahara: l’area desertica che separa il Messico dal sud degli “Estados Unidos”.
Sono le tremende, climaticamente infernali, tratte percorse da altrettanto sfortunati migranti, quelli del Sud povero e disastrato dell’America. Messico, Honduras, Guatemala, e altri ancora.
Costoro cercano ugualmente non l’America, non ne hanno bisogno, viaggiano per entrare negli opulenti “Estados Unidos”, certo non la chiamano America, perché giustamente sono già essi stessi nativi Americani, cercano non l’identità, ma il pane, o le analoghe “tortillas” che dir si voglia, ben sapendo con ampio anticipo che avranno sapore di sale, ma è comunque un gusto di qualcosa, non del nulla assoluto. Al pari dei loro analoghi nel Mediterraneo, costoro provano dunque a qualunque costo a passare il confine verso il loro personale giardino dell’Eden, chiuso qui dai muri e sorvegliati non da regolari, e legali, milizie, ma da biechi, violenti e crudeli vigilantes al servizio dei narcotrafficanti locali. Lo fanno nonostante i rischi, le violenze, le morti e le mutilazioni, pagando ingenti somme ai “cartelli” della droga e alle varie organizzazioni fuorilegge che spadroneggiano in quei territori, anche tra la milizia e i presunti appartenenti alle forze dell’ordine, spesso i primi a comportarsi assai peggio dei malavitosi per definizione.
Non esiste alternativa al pane, qualunque cosa voglia significare il termine.
Solo che, in questo romanzo, Jeanine Cummins fa assai di più: descrive certo la difficile situazione del sud del continente americano, denuncia l’infiltrazione a ogni livello civile degli onnipotenti cartelli della droga, svela come dietro gli orpelli e gli splendori dei paradisi turistici come Acapulco si trovi tutto un mondo di abiezioni, sopraffazioni, sfruttamenti, violenze, crudeltà, e la profonda disperazione dei nativi. Lo fa attraverso gli occhi di comuni ”persone per bene”, piccoli borghesi pertanto non all’ultimo livello del sottoproletariato, non disperati disoccupati e senza dimora e prospettive di vita, ma cittadini comunissimi con casa, lavoro, famiglia, affetti, progetti e gioie quotidiane. Ci fa vivere perciò l’orrore visto con i nostri stessi occhi non adusi a queste scene, le fa “sentire” addosso come se capitassero a noi. La Cummins non ha scritto una cronaca o un reportage, nemmeno un romanzo di denuncia in senso stretto, ma un racconto su misura di chiunque, con una prosa semplice, senza giri di parole, ci fa vivere eventi reali e di pubblico dominio rendendoci diretti protagonisti. Un buon libro, ben scritto, documentato, corposo, di valore.
Un tipo di narrativa che ti induce a riflettere, e quindi ben venga.
Il romanzo dice, in definitiva come sarebbe potuto essere disperata la nostra esistenza, se solo avessimo avuto un diverso destino di nascita. Tutto qui, e non è poco, perciò vale il suo prezzo
Lydia, la protagonista del romanzo, è una normale madre di famiglia, una donna colta, un’intellettuale che gestisce una piccola libreria ad Acapulco, con il marito Sebastian, giornalista tra i più quotati e impegnati in battaglie civili, e un figlio di otto anni, Luca, un bambino vivace e intelligente assai più della media dei suoi coetanei.
Una vita tranquilla, uno scorrere lieto dell’esistenza; sennonché Sebastian, che è un esperto conoscitore del fenomeno dei “cartelli” della droga, e come tale soggetto a minacce cui però mai è seguita reale volontà di vendetta, pubblica uno scomodo articolo su Javier, il nuovo “jefe”, il capo emergente del potente e crudele “cartello”, detto dei “Jardineros”, per la simpatica usanza di fare a fette le loro vittime con attrezzi da giardino, falci, machete e simili.
La vendetta dello jefe non tarda a giungere, e Sebastian e l’intera famiglia di sedici persone, riunite per un evento familiare, sono massacrati dai sicari.
Si salvano solo Lydia e il piccolo Luca: la loro unica speranza di salvezza è quindi quella di raggiungere gli Stati Uniti. Poiché tutte le linee di comunicazioni stradali, aeree e ferroviarie sono sotto il controllo dei malavitosi, l’unica è seguire le vie dell’emigrazione clandestina, confondendosi nella folla dei disperati, e disgraziati, che nulla hanno da perdere nell’inseguire il loro sogno, nemmeno la loro miserabile esistenza, a volte nulla più che un inutile e doloroso orpello.
La donna non è una stupida o una sprovveduta, è una persona colta e istruita, è una libraia, lo sa che “Viaggiare con i libri costa meno dell’aereo”. Come sa che il viaggio che si accinge a fare richiede saltare sui treni in corsa a rischio di finire sotto le ruote, viaggiare sui tetti dei vagoni, guardarsi dagli altri migranti, dai malavitosi, dalle milizie che solo di nome rappresentano l’ordine, ma sono al servizio dei narcos:
“Gli uomini sono vestiti con le tute mimetiche e hanno così tante armi addosso che una persona ignara di tutto darebbe per scontato che fanno parte di un esercito regolare.”
È un continuo e stressante, per una comune madre di famiglia con un bambino al seguito, sfuggire alle violenze di ogni genere da parte di chiunque, pagare con tutti i loro averi un’indispensabile e ambigua guida per attraversare il deserto, soffrire la fame, la sete, la paura, il freddo, il caldo, arrivare sporchi e distrutti alla meta, e rischiare di essere rispediti indietro…anche dopo anni di soggiorno negli Stati Uniti.
Questo è il racconto del viaggio in un crescendo ripido, faticoso, infernale di Lydia e di Luca, delle giovanissime e stupende Soledad e Rebecca.
Di Lorenzo, di Slim, di David, e di Beto che soffre di asma, di Marisol, e di Nicolas che studia all’università.
Del coyote, la guida del deserto, che manco a farlo apposta si chiama Chacal, e di chiunque di noi che, per ventura o per caso o perché così hanno deciso gli dei, si fosse trovato al loro posto.
Un racconto di sofferenza, che ci coinvolge tutti, che ci deve coinvolgere tutti, per il solo fatto di essere umani, se vogliamo continuare a dirci umani.
“È così grande la sofferenza. È esponenziale. Ogni morte violenta si amplifica di cento volte, di mille volte. Tutti…conoscono una porzione grande o piccola di quel dolore…Ogni giorno un orrore nuovo, e quando finisce, subentra quel senso di distacco surreale. Una specie di incredulità verso quanto hanno appena sopportato. La mente ha i poteri magici. Gli esseri umani hanno i poteri magici”. Sì, gli esseri umani hanno i poteri magici.
Se solo lo vogliono, possono dire: “Tambien de este lado hay suenos”.
Anche da questa parte esistono i sogni.
Quando e se gli esseri umani si ricordino di essere tali.

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"In mare non esistono taxi", per esempio. E simili.
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"Ci vuole coraggio/ a trascinare le nostre suole / da una terra che ci odia / ad un'altra che non ci vuole", cantava De Gregori in "Pane e coraggio". Altra bella e profonda recensione, Bruno, grazie.
In risposta ad un precedente commento
Bruno Izzo
25 Luglio, 2020
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Sono io che ti ringrazio, sei sempre molto gentile nei miei confronti, sono contento che ti sia piaciuto il mio pensiero. A presto!
Ottima ed esaustiva recensione, aggiungo un altro rimando , il documentario " Il sale della terra" a testimonianza di quanta sofferenza c'è nella Terra.
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