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AMORE MALATO
Attenzione: la recensione contiene spoiler!
“L’amore fatale” è costruito secondo la tipica struttura dei romanzi di McEwan: la prima parte, una sorta di prologo, espone l’episodio il quale mette in moto il meccanismo che, nel prosieguo, darà vita alla storia vera e propria, e che con l’episodio originario ha poca o nulla attinenza. Se si prende “Sabato” come termine di confronto si possono così notare straordinarie somiglianze drammaturgiche: qui l’incidente della mongolfiera, là l’aeroplano in fiamme che attraversa il cielo notturno di Londra; qui lo stalking di uno psicopatico nei confronti di Joe, là l’analoga irruzione di un teppista nella tranquilla e ben organizzata vita familiare del protagonista; in entrambi i casi la vicenda trova lo sfogo naturale in una conclusione violenta, in cui l’uomo borghese deve tirare fuori il suo primordiale istinto di combattente per sopravvivere e garantirsi il diritto di poter continuare a godere del suo privilegiato status sociale. Detto questo, rimarcata cioè l’impronta inconfondibilmente alla McEwan de “L’amore fatale”, non posso non sottacere un piccolo senso di delusione per come la trama è stata sviluppata. Il fatto che la storia sia narrata in prima persona dal protagonista, e che le reazioni degli altri personaggi non collimino sempre con le sue, induce ad un certo punto il lettore a una sospensione del giudizio gravida di interessantissimi sviluppi. La persecuzione subita da Joe ad opera di Jed Parry sembra cioè frutto delle proiezioni paranoiche di una mente stressata e alla disperata ricerca di un aiuto. Clarissa, la compagna di Joe, sembra quasi sospettare che le lettere d’amore che egli riceve ogni giorno siano frutto della sua immaginazione, così come gli appostamenti di Jed sotto la sua abitazione. Perfino per il fallito attentato al ristorante c’è una spiegazione che contrasta con le deduzioni del protagonista, dal momento che l’uomo ferito al posto suo è un politico già vittima in passato di un episodio simile. Sembra di essere dalle parti del “Giro di vite” di Henry James, dove una apparentemente plausibile storia di fantasmi (plausibile perché narrata da un personaggio maturo e razionale come la governante) viene pian piano smontata dalle evidenze per rivelarsi una allucinazione psicotica di una personalità disturbata. Purtroppo McEwan non osa tanto, e chiude il romanzo con un finale abbastanza scontato, in cui tutte le paure del protagonista si rivelano fondate e a lui, che invano aveva cercato la protezione della polizia, tocca l’ingrato compito di sbrogliare la matassa (non dissimilmente da ciò a cui è chiamato anche il protagonista di “Sabato”). L’armonia borghese della upper class londinese è salva, e l’intrusione del pericolo esterno è, sia pure a caro prezzo (vedi il ricorso a un’arma da fuoco, il cui acquisto presso una comunità di ex figli dei fiori è forse l’episodio più debole del libro), respinta. L’happy end, pur con condivisibili motivazioni sociologiche e perfino didattiche (il romanzo si chiude con la minuziosa descrizione clinica della sindrome di de Clerambault, della quale Jed Parry si scopre essere affetto), è garantito, ma è troppo facile, per non dire banale, e non ci soddisfa.
Quella che invece è come sempre straordinaria è la maestria della scrittura di Ian McEwan. Si consideri ancora l’incipit: qui l’approccio profondamente razionalista dell’autore sviscera in tutti i suoi minimi aspetti l’episodio di partenza, operando una sorta di “ralenti” narrativo, alla ricerca meticolosa e quasi pedante di quegli invisibili snodi del destino capaci da soli di cambiare per sempre, in un beffardo quanto ineluttabile meccanismo di causa e effetto, le esistenze dei protagonisti. La scrittura di McEwan è un microscopio in cui i comportamenti e le motivazioni dei personaggi vengono analizzati entomologicamente, con estrema precisione psicologica, col risultato di far risaltare la distanza che separa la natura dell’animale uomo da tutte le sovrastrutture morali, culturali e sociali con cui egli ammanta e giustifica le proprie azioni. Anche se il risultato non raggiunge forse la perfezione di “Espiazione”, lo stile è talmente profondo e ricco di considerazioni acute e originali (soprattutto nella descrizione delle oscillazioni nel rapporto tra Joe e Clarissa) da garantire un autentico piacere estetico e da far perdonare volentieri una trama un po’ diseguale e squilibrata, in cui non si riesce purtroppo ad allontanare del tutto la fastidiosa impressione che il romanzo nel suo insieme sia inferiore alle singole parti che lo compongono.
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Il filo di delusione che emerge è quello che ho provato anch'io dopo la lettura di McEwan. La sensazione che manchi qualcosa.