Dettagli Recensione
Senza amore e senza pietà
È davvero un mondo senza amore, e anche senza pietà, quello contro cui si trova a scontrarsi fin da giovanissima la protagonista del nuovo romanzo della scrittrice palestinese Susan Abulhawa che, a distanza di cinque anni da “Nel blu tra il cielo e il mare” e di circa un decennio dall’ancor più famoso “Ogni mattina a Jenin”, ritorna ora nelle librerie italiane con una storia intensa e drammatica, al centro della quale non avrebbe potuto non trovare spazio la terra d’origine dell’autrice.
Da lunghi decenni rimpianta e agognata, la Palestina rimane la patria perduta, luogo dove ricomporre radici e identità stravolte dall’esilio forzato a causa di quella che tuttora si chiama “an-nakba”, la Catastrofe per eccellenza del mondo arabo. Un dramma senza fine che ormai non sembra fare nemmeno più notizia. L’Abulhawa lo riporta alla ribalta proprio in un momento alquanto critico nella storia del popolo palestinese, che dal 1948 a oggi non ha conosciuto altro se non il fango e l’umiliazione dei campi profughi e speranze puntualmente deluse.
Nahr ne ha ben poche, di speranze, forse nessuna. Quando la incontriamo è una detenuta ormai ingrigita e spossata che, da lunghi anni di cui ha perso il conto, sta scontando una pena detentiva all’interno di una cella anomala che lei chiama il Cubo, dove il tempo si annulla e la luce e il buio che vi si alternano sono quanto di più innaturale possa esistere. Chiusa in questa manciata di metri quadrati di cemento armato, la donna ci racconta a poco a poco la sua vicenda, partendo dai giorni trascorsi felici sotto il sole del Kuwait, quando per lei la Palestina si riduceva soltanto a vecchie storie di famiglia, fino a quelli bui sopraggiunti dopo l’arresto da parte di Israele con l’accusa di attività terroristica; nel mezzo, disillusioni, amarezze, umiliazioni, violenze, ma anche un inatteso spiraglio d’amore di cui il mondo dimostra di essere per buona parte privo. La penna dell’autrice ritrae una donna di carattere che non si arrende dinnanzi alle brutture vissute e che, a ogni caduta, impara a rialzarsi senza piangersi addosso: una donna dai tre nomi (Nahr, Yaqoot, Almas) che si adattano a momenti e stagioni della sua vita, mentre il bisogno di avere radici e di appartenere finalmente a un luogo diviene con gli anni più impellente. Ovunque, anche là dove sembra che si possa vivere bene, la condizione di profugo presto o tardi acquisisce un sapore amarissimo diventando talvolta il capro espiatorio di situazioni esplosive, come infatti accade persino nel Kuwait all’indomani del ritiro dell’esercito di Saddam Hussein nel 1991; molto interessanti, a tal riguardo, le pagine che raccontano ciò che si è verificato nel piccolo emirato del Golfo sotto il ra’is iracheno, a dispetto della versione americana rivelatasi già in passato non affidabile.
“La gente pensa che l’occupazione irachena del Kuwait sia stata una specie di massacro, ma non è così. Gli orrori veri e propri successero quando l’Iraq se ne andò, […] Per me contava soltanto che quella notte Saddam Hussein mi aveva salvato la vita e che, durante la permanenza irachena in Kuwait, ero una donna libera e felice.”
L’io narrante della protagonista risulta molto coinvolgente e diversi personaggi, oltre a quello della stessa Nahr, si presentano ben caratterizzati; in particolare, colpisce quello della maîtresse iracheno-kuwaitiana Um Buraq che, anzitutto, squarcia il velo dell’ipocrisia sempre vigente nell’ambito delle società islamiche in fatto di prostituzione e la cui promessa di un tempo viene mantenuta nella parte conclusiva del romanzo: “Qualunque cosa accada in questo mondo ingrato, ci rivedremo, sorella mia.”
Nel complesso, dunque, la storia narrata sa catturare il lettore e gli argomenti trattati, da quelli umani a quelli politici in relazione alla causa palestinese, hanno indubbiamente un peso innegabile. Tuttavia, forse si avverte qualcosa di diverso nello stile della Abulhawa rispetto soprattutto a “Ogni mattina a Jenin”, qualcosa che non consente una valutazione del libro a pieni voti. Inoltre, ho riscontrato un paio di inesattezze che, con tutta evidenza, devono essere sfuggite al lavoro di editing: a pagina 161 si parla della città di Haifa situata di fronte all’oceano (le coste del Vicino Oriente non si affacciano sul Mar Mediterraneo?); più di una volta si fa riferimento alla preghiera islamica dell’alba chiamandola, con le parole arabe corrispondenti, “fajr salat”, che però disposte in questo modo (imputabili al testo in lingua inglese?) significano in realtà “alba della preghiera”, mentre l’espressione corretta è “salat al-fajr” (la preghiera dell’alba).
In ogni caso, “Contro un mondo senza amore” è un coinvolgente romanzo meritevole di lettura: nel solco dei precedenti lavori dell’autrice, esso ribadisce la ferma e coraggiosa denuncia della violenta arroganza degli occupanti israeliani, i quali bollano come terrorismo qualsiasi forma di resistenza da parte palestinese e, al tempo stesso, nei Territori praticano impunemente la tortura e ogni forma di abuso. Ciò che Susan Abulhawa scrive non è soltanto fiction (anche le fonti non arabe parlano delle stesse cose) e quello di Nahr, così come quello a suo tempo di Amal in “Ogni mattina a Jenin”, è l’urlo di dolore – vero, straziante, inascoltato – di un popolo intero che attende ancora giustizia e almeno un briciolo d’amore.