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Non è un paese per vecchi
 
Non è un paese per vecchi 2020-07-06 15:19:47 kafka62
Voto medio 
 
4.8
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
5.0
kafka62 Opinione inserita da kafka62    06 Luglio, 2020
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IL MALE INVINCIBILE

Il killer Chigurh è, a vent’anni di distanza da “Meridiano di sangue” e dal suo mellifluo e mefistofelico giudice Holden, l’ennesima incarnazione mccarthyana del male che imperversa nel mondo. Proseguendo nel paragone lo sfortunato protagonista Llewelyn Moss è un po’ il lontano parente del ragazzo che si aggrega alla banda di cacciatori di scalpi del comandante Glanton e che alla fine del romanzo viene ucciso proprio per mano del giudice. C’è però una differenza che salta subito agli occhi confrontando i due romanzi. Mentre la storia di “Meridiano di sangue” era una cronaca fredda e asettica di orrori e crudeltà assortiti e le rare riflessioni religiose erano messe in bocca a comprimari che avevano lo spazio di poche pagine, quella di “Non è un paese per vecchi” ha nel personaggio dello sceriffo Bell un punto di vista privilegiato, dal momento che l’autore affida a lui una nutrita serie di considerazioni etiche e filosofiche, che rendono la morale del libro quella più “spiegata” e “didascalica” di tutta la carriera di McCarthy. Il destino dei personaggi non cambia, il male trionfa per l’ennesima volta e non lascia spazio ad alcuna concreta speranza, però è come se McCarthy, come dimostrerà anche il successivo “La strada”, volesse dar voce a quella parte sana e retta dell’umanità che da qualche parte alligna ancora in America, e non importa se la sua assomiglia più a una senile rievocazione dei bei tempi andati e a una disillusa reprimenda di come le cose negli ultimi anni hanno preso una brutta piega. Quello che differenzia Chigurh e Bell non è, come molti pensano, il fatto che il primo è un pazzo psicopatico e il secondo un uomo saggio ed onesto, tutt’altro. Lo spietato assassino è infatti a suo modo un uomo di principi, che ha addirittura un’etica (ovviamente non condivisibile) relativa al proprio lavoro, che egli non esercita con avidità, slealtà o sadismo, mentre lo sceriffo nel corso della sua esistenza non ha sempre avuto una condotta esemplare (nell’episodio della Seconda Guerra Mondiale che gli è valso una medaglia d’oro egli è in realtà fuggito al nemico abbandonando i compagni feriti). La vera discriminante tra i due è la coscienza: mentre Bell porta sempre con sé il peso e la responsabilità delle proprie azioni, pagando con il rimorso e il senso di colpa i propri sbagli, Chigurh semina sangue e distruzione senza scrupoli né emozioni, come una macchina da guerra. Ciò che rende più umano lo sceriffo lo rende però anche più debole, più vulnerabile, incapace di opporsi al dilagare del male di cui il killer è l’inquietante simbolo. Eppure l’unica speranza per McCarthy (quella che lo scrittore americano non ha voluto negare neppure ai randagi sopravvissuti de “La strada”) consiste proprio nella pietas, nella compassione per i propri simili, e in un’etica che faccia sì che il proprio comportamento e il proprio lavoro venga proiettato in un futuro che trascenda, in un’ottica quasi religiosa, la propria vita, proprio come l’uomo, citato nel finale del romanzo, il quale ha fabbricato, pur in mezzo alle guerre e alle avversità, un abbeveratoio in pietra destinato a durare millenni. Cormac McCarthy resta uno scrittore pessimista, che (anche non volendo avvalorare l’ipotesi che lo sceriffo sia il suo alter ego) non è più disposto a riporre molta fiducia nei suoi contemporanei, eppure i suoi libri la porta alla fiducia nel futuro non la chiudono del tutto, preferendo lasciare aperto, anche in pieno oscurantismo morale – e perfino all’alba di una catastrofe planetaria -, un piccolo ma importantissimo spiraglio.
Concentrando l’attenzione da un punto di vista più squisitamente compositivo, ferma restando la consueta fenomenale naturalezza di McCarthy nella costruzione dei dialoghi e la meticolosa descrizione di ambienti (il deserto soprattutto) ed azioni, si riscontra per la prima volta il ricorso a un genere letterario, il thriller, che promette al lettore una trama molto più appassionante, tra fughe, inseguimenti e sparatorie, di quella orizzontale, erratica e senza una serrata evoluzione degli eventi che hanno caratterizzato tutti i suoi romanzi da “Meridiano di sangue” in poi. L’intento di McCarthy non è però quello di avvincere il lettore con il climax narrativo di un normale libro poliziesco. Esemplare è infatti la sorte di Moss, il quale viene fatto improvvisamente morire (oltretutto fuori scena, si direbbe al cinema) a due terzi del romanzo, mentre Chigurh scompare nel nulla poche pagine più tardi. Per lo scrittore americano lo spunto giallo è quindi solo uno specchio per le allodole, un puro pretesto formale per raccontare, e facendolo molto bene peraltro, il suo solito mondo: che sia ambientato nel 1850 o in un futuro post atomico, è sempre un mondo in via di dissoluzione, in cui all’uomo è assegnato l’immane compito di non perdere, a dispetto di tutte le evidenze, la speranza, di andare avanti “per accendere un fuoco da qualche parte in mezzo a tutto quel buio e a quel freddo”, per non fare sentire soli quelli che verranno dopo.

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"Meridiano di sangue" di Cormac McCarthy
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