Dettagli Recensione
UN ORRORE DIABOLICO
“Quando Dio ha fatto l’uomo doveva avere il diavolo accanto”
Ho percorso la parabola artistica di Cormac McCarthy a ritroso, in quanto dei suoi libri ho letto per primo “La strada”, poi la “Trilogia della frontiera” e infine “Meridiano di sangue”. Da questo approccio anti-cronologico ho potuto evidenziare come l’ultimo McCarthy, per quanto cupo, apocalittico e disperato, è un autore ottimista se paragonato a quello degli esordi. “Meridiano di sangue” è infatti il romanzo più dannatamente atroce che abbia mai letto: quello che McCarthy vi descrive è un mondo maledetto, selvaggio, dominato dalla violenza e dalla sopraffazione, in cui scene di massacri, di omicidi gratuiti e di abiezioni assortite si susseguono con sconcertante assiduità e, soprattutto, senza speranza di redenzione alcuna.
Il protagonista è un ragazzo di 14 anni, che l’autore non chiama mai per nome e che sembra un po’ l’antenato di John Grady e di Billy Parham, i personaggi principali della “Trilogia”. Ma se questi ultimi avevano un codice etico molto preciso e una legge morale incapace di scendere a compromessi, benché – codice e morale – fondamentalmente istintivi e destinati a scontrarsi dolorosamente con la cruda realtà, “il ragazzo” non può a prima vista essere inequivocabilmente considerato un personaggio positivo. Egli scompare per intere pagine, mescolato alla folla di esseri umani che lottano crudelmente per la sopravvivenza per tutte le 340 pagine del libro. Fin da quando egli, poco più che bambino, va via da casa e inizia a peregrinare tra Stati Uniti e Messico non sussistono illusioni di sorta. La vita è una lotta darwiniana per non soccombere, e ciò che più colpisce è che egli la accetti con rassegnazione e apatia, come una cosa ineluttabile a cui non ci si può sottrarre per il semplice fatto di essere nati. Non c’è traccia di psicologia in “Meridiano di sangue”, ma solo bruta animalità, una coazione a ripetere gratuitamente gesti di violenza e a spostarsi senza motivi apparenti per lande ostili e desolate, cosa che è un po’ il tratto caratteristico di tutta la narrativa mccarthyana. Il ragazzo uccide al pari dei suoi compagni della famigerata banda di rinnegati del comandante Glanton (un personaggio, si badi bene, realmente esistito), ma a differenza loro non lo fa mai per bieco sadismo o animalesca crudeltà; quando ha l’occasione di chiudere i conti con il giudice non lo uccide perché si rifiuta di sparargli alle spalle; c’è ancora in lui, fievole ma non spento del tutto, un piccolo barlume di umanità, miracolosamente sopravvissuto ad anni di costante contatto con l’orrore. E’ vero però che opporsi al male non si può, perché il male sembra ontologicamente onnipresente e invincibile. La figura del giudice Holden, uomo enorme in tutti i sensi, diabolico, cinico e senza scrupoli pur nella sua cultura e “savoir faire”, ne è un po’ l’emblema, finendo per diventare il principale deuteragonista.
Il giudice è probabilmente l’invenzione narrativa più notevole di “Meridiano di sangue”. Non è un caso che egli sembri immortale e ubiquo. Il ragazzo lo incontra nelle prime pagine del romanzo, mentre diffama e fa quasi linciare dalla folla un predicatore, lo ritrova nella banda di Glanton, e poi ancora fino agli anni della sua maturità, sempre uguale a se stesso, sia che si aggiri nudo nei notturni bivacchi nel deserto sia che si comporti da cittadino elegante e rispettabile, sempre a suo agio in tutte le situazioni più torbide, mellifluamente amichevole e paternalistico, ma fondamentalmente privo di sentimenti. Con una interpretazione neanche troppo azzardata, il giudice potrebbe essere il diavolo incarnato, e la sua onnipresenza rappresentare l’inevitabilità del male, della violenza e della guerra (la cui necessità egli propugna con appassionata enfasi oratoria). La sua figura è fagocitante, titanica, e il suo contraltare ideale, lo spretato Tobin, il quale cerca di portare il ragazzo dalla sua parte con il velleitario richiamo alla saggezza divina, è troppo debole per sperare di non soccombere nell’impari duello.
“Meridiano di sangue” trae la sua forza dall’essere contemporaneamente sia un romanzo simbolico, che riflette sui grandi temi etici dell’umanità, sia un romanzo estremamente concreto. Delle violenze che il protagonista attraversa al lettore non viene infatti risparmiato nulla. E’ anzi probabile che in nessun altro libro contemporaneo si siano visti tanti cadaveri, di uomini e di animali, e tutto questo con uno stile asciutto e anti-sentimentale, anche quando a morire in maniera atroce ed infamante sono esseri inermi e innocenti come i bambini. Sangue, sudore, odore di polvere da sparo, puzzo di decomposizione: tutto questo è “Meridiano di sangue”, ma anche, come a far da contrappeso, una natura ostica e selvaggia, che scorre inesplicabile e bellissima davanti agli occhi degli uomini, incapaci di coglierne la magnificenza ma anche di sottrarsi al suo enigmatico fascino (di qui la loro ostinazione a rimettersi in viaggio alla prima occasione, non importa per dove o per quanto tempo). E’ un grande privilegio del lettore di McCarthy perdersi con i suoi personaggi per deserti sterminati e montagne impervie, di fronte a tramonti di fuoco o nel mezzo di tempeste terrificanti o ancora nel silenzio di notti stellate trascorse all’addiaccio, sublimando la lentezza e l’apparente ripetitività della narrazione in un’esperienza, spirituale ed esistenziale piuttosto che meramente artistica e letteraria, unica e irripetibile.
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è sempre un piacere leggere le tue recensioni su McCarthy; mi riportano alla mente le mie letture. Devo dire che "Meridiano di sangue" è il suo romanzo che mi è piaciuto meno. Anzi, direi che il fatto di averlo apprezzato così poco sia alquanto strano, tanto da spingermi sempre più a ritentare. Sicuramente lo farò, in futuro.
Riguardo al giudice, credo sia uno dei personaggi più riusciti della letteratura contemporanea.
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