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Sopravvissuta.
«La morte è sempre a un passo da noi. Ed è davvero solo un piccolo passo, pensai.»
Un bastone di ferro conficcato nella pancia, una preghiera: fa che Yoichi viva. Una speranza, cioè, che l’ultimo soffio di vita vada a lui perché gli occhi della donna hanno visto, hanno assaporato paesaggi stupendi e una miriade di istanti, perché ella ha avuto un tetto sotto cui dormire, due bravi e premurosi genitori, tanti sorrisi, pasti lauti e soddisfacenti, un corpo sano e forte. Il sogno, il nonno e le sue parole. La consapevolezza di essere lei, Sayoko, la sopravvissuta. Perché Yoichi è morto sul colpo con le parole dolci e a voce bassa cantate dall’amato Leonard Cohen.
All’epoca la protagonista aveva ventotto anni e ancora credeva che la vita potesse durare in eterno, che l’amore e la possibilità di realizzare i propri desideri fossero una verità improcrastinabile. Aveva da tempo una relazione a distanza con l’uomo, lui residente a Kyoto e lei a Tokyo. L’incidente è avvenuto lungo la strada per Kamigamo dove si trovava l’appartamento del defunto che fungeva anche da suo studio. Una relazione, la loro, anche per ragioni lavorative, non ben vista dai genitori di lei che confidavano in quella distanza quale possibilità di una separazione. E la separazione è avvenuta, ma per altro motivo. Le loro vite si sono spezzate, si sono divise inesorabilmente e mai potranno riunirsi. Ella non mancherà mai di risentire nella sua pancia la sensazione di quel ferro arrugginito, non potrà mai dimenticare quelle sensazioni. Anche se il dopo lo ha vissuto come se si trovasse in una bolla di sapone. La perdita del suo Mabui, la ricerca. Ma cosa ne è di chi resta?
«Avevo anch’io un effetto sul mondo. E non lo sapevo. La luce che emanavo mi veniva restituita in egual misura. A volte era un luccichio, a volte un bagliore, come un’onda, come l’eco. Per quanto insignificante fosse la mia presenza, le mie emozioni erano in grado di mettere in movimento tutto il resto. C’era un intero mondo, invisibile agli occhi, in cui le cose avvenivano, e cambiando prospettiva potevo vederle: ecco che cosa avevo imparato dall’altra parte.»
Ambientato tra i templi e gli onsen di Kyoto, l’ultimo lavoro di Banana Yoshimoto è scritto all’indomani del terremoto e dello tsunami di Fukushima e non è altro che un inno alla vita, alla speranza. Perché chi sopravvive a una catastrofe, a un qualcosa che colpisce qualcuno che abbiamo al nostro fianco, un nostro affetto, una persona cara subisce gli effetti del contraccolpo, della perdita. E non perde soltanto quell’affetto emblema di un legame, perde anche tutto quel che quel legame può significare, ivi compreso il senso della propria esistenza, la ragione del proprio vivere.
«Ognuno di noi vive la propria vita portandosi dietro il peso del dolore che ha provato. Ci sono anche quelli che non provano niente e che non portano alcun peso: basta un’occhiata per capire chi sono. Sembrano automi, sono diversi dagli altri. Quelli che portano un peso li riconosci dal colore, dall’incedere pieno di grazia. Ecco perché sono contenta di avere un peso da portarmi dietro. Finché avrò giorni da vivere, voglio vivere con grazia.»
Chi sopravvive si porta dietro un dolore che fa parte di un bagaglio che non può essere scardinato e che lo colloca in una dimensione diversa da quella vissuta da chi non lo ha mai provato. Banana ci ricorda quanto può essere flebile la vita, quanto non possa essere altro che un alito, un soffio di vento ma anche quanto sia importante viverla. Viverla in ogni secondo, in ogni anfratto, in ogni piccolezza, in ogni alto e basso. Alla ricerca del proprio Mabui perduto, alla ricerca del proprio posto nel mondo.
«Non è affatto salutare, ma è la vita, non c’è altro modo di spiegarlo. Alla fine le persone, ovunque vadano, fanno incontri, incontri che non potrebbero fare se non fossero vive. […] Avevamo tutto, eravamo fortunati. Da vivi o da morti non ci manca mai niente. Non manca niente a nessuno. Si deve morire per riuscire a rendersene conto.»
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