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Gli occhi gialli della morte
Una femmina di tigrillo, incattivita dall’uccisione dei suoi cuccioli e dal ferimento mortale del suo compagno, insidia il villaggio amazzonico di El Idilio: ha già ucciso il gringo responsabile della sua strage familiare - non solo crudele ma anche insensata perché le piccole pellicce ricavate sono crivellate di pallini e assolutamente inutilizzabili - ma così facendo ha assaggiato il sangue umano e alimentato la sua fame di vendetta verso tutti gli usurpatori della foresta.
Il tigrillo ha degli occhi sproporzionatamente grandi per il suo faccino felino, sembrano spalancati e ficcanti, non sorprende che l’autore affidi ad essi il compito di rappresentare la minaccia della morte per il protagonista Antonio Bolivar.
Antonio vedrà tempo prima i due occhi gialli in un’allucinazione provocata da una bevanda indigena che gli viene offerta in un rito celebrativo per la sua sopravvivenza al morso di un serpente, li vedrà come compimento del suo futuro cammino, come l’epilogo della sua storia: “… nel sogno che seguì si vide parte innegabile di quei luoghi (…) a seguire le impronte di un animale inesplicabile, senza forma né dimensioni, senza odore né suoni, ma dotato di due brillanti occhi gialli”.
Mentre attende lo scontro finale con l’animale, torneranno ad ossessionarlo e alimenteranno un’angoscia che da cacciatore esperto non pensava che avrebbe provato: “… ormai la paura ti ha trovato e non puoi più fare nulla per nasconderti? Se è così, gli occhi della paura possono vederti…”
Le ultime pagine vedono Antonio estenuato dalla sfida fisica e psicologica già protrattasi per un giorno, che in un riparo di fortuna s’addormenta e sogna: "Davanti a lui qualcosa si muoveva nell’aria (…) Questo qualcosa era privo di una forma precisa, definibile, ma qualunque forma assumesse aveva sempre due inalterabili e splendenti occhi gialli.”
Questo sarà l’ultimo incontro onirico, giunge infine il tempo per Antonio di fronteggiare davvero gli occhi gialli della morte.
Il libro inframezza alle vicende fin qui descritte episodi della vita di Antonio, permettendoci di comprendere perché sia lui l’essere umano degno di condurre la caccia alla bestia impazzita di dolore: i suoi compaesani lo sceglieranno perché esperto della foresta come luogo fisico, la bestia lo sceglierà perché conoscitore delle leggi d’equilibrio che governano la foresta e le creature che la abitano.
L’assedio condotto dal tigrillo ad Antonio ha il profumo dello scontro epico fra avversari di pari valore: si svolge mentre cala copiosa la pioggia dal cielo e quando improvvisamente questa si arresta, si alza dal terreno una nube fitta di vapore, l’elemento acqua li avvolge sempre e non può non evocare alla memoria del lettore un’altra lotta epica fra l’uomo e la natura, quella del vecchio Santiago con il suo marlin.
Infine, due righe sui romanzi d’amore del titolo del libro: sono la passione di Antonio, il suo antidoto alla vecchiaia e alla noia, sono quello che - una volta in più - lo rendono speciale (riconosciamo ancora una volta in Sepùlveda la funzione elevatrice della letteratura). Antonio è un uomo che cerca con impegno e dedizione ciò che è più giusto per lui, nel romanzo lo fa sia con il posto in cui vivere che con i libri da leggere.
Un bel romanzo che immerge nella foresta e ci insegna che un equilibrio fra le creature viventi non solo è sempre possibile ma auspicabile.