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LA TRILOGIA DI McCARTHY, UN WESTERN KANTIANO
Se un libro dell’ultimo quarto di secolo può vantare il diritto di essere considerato un classico della letteratura questo è senz’altro la “Trilogia della frontiera” di Cormac McCarthy. Fatto di rudi amicizie virili, cavalcate solitarie e bivacchi sotto le stelle, deserti polverosi e montagne innevate, villaggi abbandonati e (rare) sparatorie, è un western crepuscolare clamorosamente fuori tempo massimo (ambientato com’è negli anni intorno alla Seconda Guerra Mondiale), eppure assomiglia a certi epici film di John Ford, innervato in più da sorprendenti squarci onirici e folgoranti riflessioni metafisiche. E’ composto da tre romanzi autonomi, ma profondamente interrelati per via del fatto che i protagonisti dei primi due (John Grady e Billy Parham) si ritrovano entrambi nell’ultimo tomo (*). Il tema portante della trilogia è sicuramente l’attraversamento di quella “linea d’ombra” che separa conradianamente l’adolescenza dalla maturità: in “Cavalli selvaggi” John Grady e l’amico Lacey Rawlins fuggono dal presente senza speranza con lo scopo di inseguire “romanticamente”, lungo le stesse piste che percorrevano le tribù indiane molti decenni prima, una vita nobile e indipendente, costruita con le proprie forze e capacità (che è poi né più né meno che il sempiterno mito del “self made man” americano), oltre la frontiera che divide il Texas dal Messico; in “Oltre il confine” (in cui l’attraversamento della frontiera è prefigurato già nel titolo) Billy Parham si reca invece in Messico una prima volta per restituire al suo mondo una lupa catturata vicino al ranch del padre, successivamente insieme al fratello Boyd per ritrovare i cavalli rubati alla sua famiglia e infine per riportare in terra americana le spoglie del fratello morto. Entrambi, John e Billy hanno diciassette anni (anche se le vicende del secondo romanzo si svolgono alcuni anni prima), e non è un caso che McCarthy abbia scelto come protagonisti dei suoi romanzi due adolescenti. In un mondo profondamente tragico qual è quello della “Trilogia”, sono loro, i giovani, che la durezza della vita non ha ancora reso ottusi e insensibili, ad avere l’impegnativo onere di portare avanti un percorso di formazione che passa inevitabilmente per l’abbandono della casa natia e della famiglia e l’esplorazione di un ambiente selvaggio e ostile, in cui a una natura grandiosa e magnifica seppur spietata si contrappone la società degli uomini, crudele e spregiudicata anche se capace a volte di slanci di insospettata umanità.
L’universo di McCarthy è decisamente manicheo: in ballo ci sono sempre e comunque il Bene e il Male, senza sfumature e senza ambiguità. John e Billy non sono nati per essere paladini del Bene, ma sono costretti a diventarlo per non volere accettare il compromesso di tollerare il Male. McCarthy sceglie di collocare geograficamente il Male nel Messico, ma è chiaro che non c’è nessun intento sciovinistico in lui, in quanto il Messico è, prima ancora che un luogo geografico, un’entità simbolica, emblema di quello che nelle favole dell’infanzia era il bosco lontano da casa, ricco di attrattive ingannevoli e di pericoli fatali, e che qui è l’arena in cui guadagnarsi, attraverso lutti e sofferenze, cicatrici nel corpo e soprattutto nell’anima, il difficile diritto di considerarsi uomini. Questa lotta, eterna e ontologica, tra Bene e Male è melvillianamente rappresentata, in “Città della pianura”, nel duello all’ultimo sangue tra John Grady ed Eduardo, e non è un caso che lo scontro non lasci sopravvissuti: contro il Male non si può infatti uscire vincitori, ma alle sfide contro il Male non ci si può nondimeno sottrarre, pena la disumanizzazione, la corruzione morale o l’atarassia dei sentimenti.
Ecco che allora il destino degli uomini è quello di convivere con il dolore, inevitabile e insopprimibile, come ben sanno i poveri abitanti del Messico che John e Billy incontrano lungo le loro peregrinazioni, oppressi oltre ogni immaginazione dalle soverchierie e dalle violenze di soldati, guardie, latifondisti e banditi, eppure sempre pronti a dividere il loro scarsissimo cibo con i due forestieri o ad aiutarli con abnegazione ad uscire dalle difficoltà anche a rischio della loro stessa vita (come i contadini che aiutano Boyd ferito a sfuggire agli inseguitori). Il popolo messicano è un’entità manzoniana, umiliato, calpestato e sofferente eppure dignitoso nella sua miseria. Ma, a differenza che in Manzoni, nel mondo di McCarthy Dio, se pure esiste, è lontano, nascosto, un fantasma che aleggia in controluce. Non è su di lui che i suoi personaggi possono fare affidamento, ma tutt’al più sulla oscura e indecifrabile legge morale che essi hanno scolpita nei loro cuori, labile traccia di una lontana nostalgia di divino. I protagonisti di McCarthy sono in fondo mossi da quello che Kant ha definito “imperativo categorico”. Aiutare una persona incontrata per strada (il ragazzo di “Cavalli selvaggi”, la giovane messicana di “Oltre il confine”), così come restituire mezzo dollaro ricevuto in prestito molto tempo prima, diventano un dovere imprescindibile, senza che le conseguenze dell’atto possano assumere rilevanza nella decisione da intraprendere. In questo senso i romanzi di McCarthy sono intrinsecamente filosofici (o religiosi), senza che l’autore si allontani mai da una narrazione “terra terra”, fatta di fatica, sudore, polvere e sporcizia. Scrive Baricco che “la musica di McCarthy suona una sola canzone e sempre quella. Racconta di gente che con pazienza infinita cerca di rimettere a posto il mondo. Di riportare le cose dove dovrebbero stare. Di correggere le impurità del destino. Che sia una lupa, o dei cavalli rubati, o un cadavere, o un bambino perduto: quello che fanno è cercare di riportarli al loro posto. E non c’è spazio per la ragionevolezza o il buon senso: è un istinto che non conosce limiti, un’ossessione incurabile. Se occorre la violenza, si usa la violenza. Se bisogna morire, si muore. Con la ferocia e l’ottusa determinazione di un giudice che deve riequilibrare i torti della sorte, gli eroi di McCarthy vivono per ricomporre il quadro sfigurato del mondo.” “Non è sempre una buona idea fare quello che si può fare” dice Billy al fratello Boyd, però l’adesione istintiva e disinteressata a un codice morale fa sì che i personaggi di McCarthy lo facciano sempre, anche arrecando a loro stessi un danno o uno svantaggio. E’ questo codice morale che essi rispettano ostinatamente, pur vivendo in un mondo spietato che non concede nulla ai buoni e agli onesti, a essere il “messaggio nella bottiglia” lasciato dallo scrittore alle generazioni future: un flebile raggio di luce e di speranza nell’oscurità più buia e spaventosa.
Qual è allora il senso dell’esistenza per i personaggi di McCarthy? Quello che lo scrittore sembra suggerirci è che l’uomo per realizzare se stesso deve perseguire caparbiamente uno scopo la cui finalità ultima gli sfugge ma a cui non può sottrarsi (come ad esempio accompagnare una lupa al di là del confine per restituirle la libertà o sposare una prostituta intravista in un bordello messicano). Lui non capirà mai a cosa serve il suo adoperarsi per correggere le ingiustizie che la vita e il destino disseminano lungo il suo percorso, saprà solo che dovrà farlo senza guardare alle sue conseguenze pratiche, anche a costo di soffrire e perdere tutto ciò che ha di più caro. Il senso della vita va oltre quella vita, sarà trasmesso a qualcun altro, non si sa chi né quando (penso ad esempio al padre e al figlio de “La strada”, che vagano in un mondo desolato e apparentemente privo di umanità, non solo per sopravvivere a qualsiasi costo, ma per portare avanti, insensatamente, un ultimo barlume di umanità). Se è il prete che il Billy di “Oltre il confine” incontra nella città abbandonata ad aver ricevuto dall’anacoreta il senso della sua folle ricerca e a sua volta trasmette al protagonista il testimone della propria esperienza col suo lunghissimo racconto, allo stesso modo i personaggi di McCarthy vagano apparentemente senza meta per i paesaggi desertici e senza tempo della frontiera per potere a loro volta (anche se a loro insaputa) trasmettere il senso ultimo della vita. Al lettore è concesso questo privilegio, di poter discernere, in mezzo a una prosa scarna ed essenziale, apparentemente meccanica e ripetitiva, preziose e folgoranti gemme di filosofia e addirittura di metafisica.
Arriviamo qui a parlare del particolarissimo stile di Cormac McCarthy. Nei suoi romanzi non c’è traccia di psicologia, dei suoi personaggi non conosciamo mai i loro pensieri, ma solo le (poche) parole che pronunciano e i gesti che compiono. Eppure essi si imprimono indelebilmente nella nostra mente, fino a diventare nostri preziosi compagni di viaggio. Come fa McCarthy a realizzare questo miracolo? Il segreto di McCarthy è il “tempo narrativo”. Lo scrittore americano inventa un tempo tutto suo per raccontare le vicende di John e Billy, un tempo dilatato, ripetitivo, spesso e volentieri non essenziale (quanti tempi morti!), apparentemente noioso, eppure alla fine così essenziale e necessario da far riconoscere che simili storie potevano essere raccontate solamente così e in nessun altro modo. Prendiamo ad esempio il lungo viaggio di Billy con la lupa ferita: sono decine e decine di pagine di minimi gesti quotidiani, di avvenimenti banali, di osservazioni incolori, eppure in quelle pagine, impercettibilmente, il rapporto tra il ragazzo e l’animale lentamente cambia, evolve, si trasforma, e alla fine scopriamo che quanto abbiamo letto, apparentemente dimesso e prosaico, è di una poesia e di una delicatezza commoventi. Anche la natura che circonda i protagonisti, in apparenza sempre uguale nei suoi avvicendamenti stagionali e meteorologici, in realtà regala a distanza di tanto tempo ricordi unici e indimenticabili (come gli aironi intravisti da Billy in un campo allagato nel Messico, “grigie figure allineate l’una accanto all’altra come monaci incappucciati in preghiera”), fino a diventare essa stessa protagonista, senza prepotenza, ma con la forza incomprimibile di una presenza muta e costante.
McCarthy sembra non fare nulla per appassionare il lettore: la mattina del giorno in cui Billy trova la lupa ferita e si allontana con essa alla volta del Messico scrive che “uscì dal cancello ancor prima che il padre si alzasse e non lo vide mai più”, e lo stesso accade prima dell’ultimo incontro di John con Magdalena. A lui non interessa avvincere il lettore con la suspense o altre strategie abusate, anzi ci tiene a sottolineare che in fondo tutto è già stato determinato in anticipo, che la fine è già nota, e non può esserci alcun colpo di scena, e men che meno alcun lieto fine. Il determinismo di McCarthy è profondamente tragico (se concede a John e Rawlins una parentesi idilliaca in un ranch messicano è solo per farli sprofondare subito dopo nell’inferno della più bieca e sordida lotta per la sopravvivenza in un carcere messicano). Nonostante ciò, pur sapendo come va a finire, speriamo ugualmente, a dispetto di ogni evidenza, che l’amore e la giustizia trionfino, e che la giovane prostituta messicana riesca a sfuggire alla schiavitù del suo aguzzino. Se lo facciamo è perché non riusciamo a rassegnarci, come in fondo dev’essere, alla vittoria del Male, ma McCarthy non gioca sporco, non fa trucchi, non usa la suspense e il melodramma come facili espedienti narrativi, non è mai consolatorio. McCarthy è talmente grande che sembra che parli a ognuno di noi personalmente, che ci racconti la vita come essa veramente è, senza eufemismi e senza abbellimenti posticci. Così la narrazione può trascorrere sonnacchiosamente grigia e dimessa per decine di pagine per poi magari accendersi in momenti di lancinante drammaticità e di pregnante violenza; oppure i dialoghi essere a lungo poco più di monosillabi, o addirittura scritti in spagnolo, e poi di colpo diventare fluviali racconti (* *), i quali possono essere un compendio della storia messicana meglio di un libro di storia, o soffermarsi sul concetto di verità come un volume di filosofia, o rievocare picaresche avventure alla Alvaro Mutis (come nella storia narrata dal bizzarro gruppo di zingari che vagano trascinandosi dietro il relitto di un aeroplano).
La “Trilogia della frontiera” non arriverebbe però a essere un libro così bello e struggente e triste (e tante altre cose ancora, ma soprattutto triste, infinitamente triste), se alla base non ci fosse una profondissima fede nell’uomo (e anche in ogni creatura vivente, come si intuisce dal ruolo che nel romanzo hanno cavalli, lupi e cani, e che richiederebbe un saggio a parte). McCarthy è un autentico umanista, uno degli ultimi grandi umanisti della nostra epoca, che ha il coraggio, dostojevskijano oserei dire, di non ritrarsi di fronte alle inestricabili ambiguità dell’esistenza, e soprattutto il merito di credere che “ogni uomo è più di ciò che lui ritiene di essere”.
(*) E’ illuminante che già nel secondo libro una zingara legga la mano a Billy e gli dica che lui ha due fratelli e che avrà una vita lunga ma dolorosa, con ciò anticipando il rapporto fraterno che verrà instaurato nel romanzo successivo con John Grady e la sua sorte di vecchio cowboy che continua nelle ultime pagine a vagabondare senza una meta per le strade dell’America.
(* *) I racconti che i protagonisti ascoltano da altri personaggi (la zia dell’hacendado, il prete del villaggio abbandonato, il vecchio cieco, ecc.) hanno la funzione sia di intercalare il loro monotono e indefesso peregrinare, quasi sospensioni oniriche di una realtà fin troppo materiale, pause affabulatorie di un mondo che all’apparenza si nega alla narrazione, sia di rimarcare la crudeltà e la cattiveria, direi quasi ontologica e senza speranza, dell’esistenza, in cui le sofferenze dei giovani protagonisti trovano un’eco e un’anticipazione in quelle dei loro interlocutori.
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Dell'autore conosco solo "La strada", un bel libro che però non è nelle mie corde. Momentaneamente ho lascito C. McCarthy , poi vedremo. Temo che la sua scrittura non mi sia confacente.
è davvero bello sentir parlare di McCarthy in questi termini. La tua analisi è precisa e molto accurata.
Credo che l'autore non solo non faccia nulla per ingraziarsi il lettore, anzi, ma faccia spesso di tutto per lasciarlo sconcertato e quasi spingerlo a lasciar perdere. È crudo e reale in un modo così autentico da far paura, e credo non sia un esagerazione, come dici tu, chiamarlo l'ultimo degli umanisti o metterlo a confronto con mostri sacri come Dostoevskij. Io credo che se davvero c'è uno scrittore, nei nostri tempi, che verrà ricordato nei secoli sarà proprio lui: questo perché l'eternità è riservata a chi riesce a coglierla negli angoli angusti dell'animo umano, quelli che non cambiano mai. E secondo me McCarthy ci riesce in pieno.
Complimenti.
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Sai a chi mi fai pensare quando scrivi che l'autore non fa nulla per ingraziarsi il lettore?
Assurdo, Oe Kenzaburo. Lui lo dice proprio ne Il bambino scambiato : a me non interessa piacere a tanti lettori, io devo scrivere ciò che ritengo sia letteratura. Scrivo per pochi.
Ne deduco che McCarthy sia tosto e poco digeribile come il Nobel giapponese. Diamine che fatica leggerlo!
Ciao Giulio e complimenti