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ALL'INSEGUIMENTO DI UN EMBLEMATICO MISTERO
“Dentro V., dentro di lei, c’è molto più di quanto nessuno abbia mai sospettato. Il problema non è tanto sapere ‘chi’ è, ma ‘che cosa’. Che cos’è? Dio non voglia che io sia mai chiamato a fornire questa risposta”
Sgombriamo subito il campo da un equivoco: anche se difficilissimo da trovare, esiste, all’interno delle sue innumerevoli trame e sottotrame e dei suoi continui salti temporali, un significato, un trait-d’union nel romanzo di esordio di Thomas Pynchon. Non sto parlando soltanto del fantomatico personaggio di V. che dà il titolo all’opera, ma di un senso unificante, di una morale in grado di definirla e di valorizzarla. Ma andiamo con ordine, partendo dalla trama, che è effettivamente ingarbugliata oltre ogni dire e che si cristallizza intorno a due personaggi principali, Benny Profane ed Herbert Stencil. Il secondo, un avventuriero inglese di mezza età, è colui che si imbarca nella strampalata ricerca di V., un nome trovato per caso nella corrispondenza del padre defunto, e fa di questa ricerca lo scopo stesso della sua vita. Stencil, che parla bizzarramente di sé usando la terza persona, approda a New York e qui congiunge le sue vicende a quelle di Profane, l’anti-eroe del romanzo, uno schlemiel che si lascia vivere senza alcun progetto esistenziale, tra risse, sbronze, domicili irregolari e rapporti (anche sentimentali) casuali e svogliati (non a caso viene presentato dall’autore dicendo di lui che fa lo yo-yo, una pratica che consiste nel sedersi in un convoglio della metropolitana e fare su e giù, da un capolinea all’altro, senza mai scendere). Se Stencil è il massimo della concentrazione, della determinazione a perseguire un obiettivo, per quanto folle esso sia, è il suo opposto, Profane, il vagabondo, il border line, a dettare i tempi e a dare il tono al romanzo, che risulta essere svagato, errabondo, centrifugo. Tanti sono infatti i personaggi che circondano i due protagonisti, sia nella parte contemporanea (Paola Maijstral, Rachel Owlglass, Esther Harvitz e il resto della Banda dei Morbosi, il chirurgo estetico Schoenmaker, il dentista Eigenvalue, il musicista jazz McClinton Spere, il marinaio Pig Bodine) sia, ancor di più, nei flashback ambientati, non però in questo ordine, nel 1898 in Egitto, nel 1899 a Firenze, nel 1913 a Parigi, nel 1919 a Malta, nel 1922 in Namibia e negli anni della Seconda Guerra Mondiale a Malta. Alcune figure ricorrono più volte nelle varie epoche (Stencil padre, i due Godolphin, Maijstral, padre Fairing), trasformando il libro in una sorta di puzzle, di cui V. costituisce l’unico elemento unificante. C’è di che perdere la testa per star dietro a tutte le tracce seminate da Pynchon con l’apparente scopo di confondere il lettore, ma l’impresa non è impossibile. Bisogna anzitutto leggere “V.” come un mix tra romanzo ottocentesco (le didascalie presenti all’inizio di ogni capitolo sono indicative al riguardo) e romanzo post-moderno (il gusto per il pastiche, l’alternanza di registri, il polistilismo), cercando di metabolizzare l’intenzionale dispersione del racconto, la struttura spesso a scatole cinesi (si pensi ad esempio al capitolo di Mondaugen, all’interno del quale si inserisce, come un racconto a se stante, la rievocazione da parte di un secondo personaggio dello sterminio della tribù degli herero; oppure la scena in cui Profane sta cercando di impedire che Pig violenti Paola, ricordandogli di essere in credito con lui per avergli salvato la vita anni prima quando entrambi erano in marina, a cui segue la lunga rievocazione dell’episodio e dei suoi antefatti). A questo effetto-matrioska, si devono aggiungere tutti gli episodi assolutamente superflui (uno per tutti, la visita di Profane all’appartamento dei suoi genitori, che in quel momento si trovano fuori casa), gli innumerevoli personaggi che vivono solo per qualche riga e che poi ritornano nel buio da cui sono spuntati (l’inventore di un bordello a gettoni che festeggia la sua settantaduesima invenzione respintagli dall’ufficio brevetti; il musicologo che ha dedicato tutta la vita alla ricerca del fantomatico concerto per kazoo di Antonio Vivaldi, il monaco che passa il tempo allevando scorpioni giganti, ecc.) e gli altrettanto numerosi aneddoti e singolarità di cui sono costellate le quasi seicento pagine del romanzo (la storia di padre Fairing, che si era messo in testa di convertire i topi di New York andando a vivere e a predicare nelle fogne della città, la caccia agli alligatori albini nelle fogne di New York, che riprende una diffusa leggenda metropolitana, l’espressionismo catatonico di Slab, che dipinge formaggi danesi come Warhol le bottiglie di Coca Cola, la psicodonzia di Eigenvalue, ecc.). Il talento enciclopedico di Pynchon si sbizzarrisce senza freni inibitori, attirato dalle stranezze, dalle pieghe inesplorate della Storia, dalle coincidenze e da una perversa logica per cui “tutto si tiene” e quindi tutto (ma proprio tutto!) può diventare materia di romanzo, in una visione onnicomprensiva che decenni più tardi è diventata il marchio di fabbrica di uno scrittore come David Foster Wallace. E’ necessario pertanto fare la tara di tutte le digressioni e di tutte le estemporaneità dell’opera per riuscire a filtrare il suo nucleo centrale. E in questo nucleo l’identità di V. è forse la cosa meno misteriosa. V. è infatti una donna che scopriamo quindicenne in Egitto e a Firenze con il nome di Victoria Wren, e poi via via a Parigi, La Valletta, Namibia con i nomi di Veronica Manganese o Vera Meroving, fino a ritrovarla nelle sembianze del Prete Cattivo a Malta quasi mezzo secolo dopo. A fare da trait-d’union tra le varie V. ci sono un pettine d’avorio che raffigura i volti di cinque uomini crocifissi e un occhio finto che nasconde al suo interno nientemeno che un orologio a molla. Quello che è davvero misterioso, e che non viene del tutto svelato, non è tanto se essa sia o meno (come viene fatto intuire nelle ultime pagine) la madre di Herbert Stencil (o addirittura la madre di Fausto Majistral e la nonna di Paula), ma cosa sta dietro a V. e ai personaggi che le ruotano attorno. In questo senso V. è un’entità molto più emblematica ed astratta di quanto appaia a prima vista. Dove c’è lei, per qualche oscuro motivo, si agitano turbolente le acque della Storia, vera o inventata: la crisi di Fashoda in Egitto, l’insurrezione di rivoltosi venezuelani a Firenze, i moti di marzo a Malta, la rivolta delle tribù del Sud-Est africano contro il dominio coloniale tedesco, i bombardamenti dell’Asse a Malta, il tutto legato da un filo conduttore rappresentato da una ipotetica cospirazione universale cui non è estranea l’immaginaria terra di Vheissu scoperta dall’esploratore Godolphin. E’ qui che si gioca la credibilità narrativa di Pynchon: c’è un nesso autentico che lega tra loro i vari personaggi del romanzo e i suoi episodi storici e pseudo-storici, oppure in fondo a tutto si può solo scorgere la vena beffarda dell’autore, capace di far balenare scampoli di trame avvincenti come in un romanzo spionistico o di avventura o ancora di horror alla Edgar Allan Poe, per poi lasciare il lettore con un palmo di naso e non portare alcunché a compimento? Il dubbio a mio avviso si scioglie se si pensa che tutto il romanzo è pervaso dall’inquietante e minacciosa presenza del mondo inanimato. E’ soprattutto Profane, lo schlemiel, ad essere in perenne lotta con le cose, che lo ossessionano e perseguitano senza tregua (ad esempio, perde il posto di lavoro perché la sveglia, pur essendo caricata, non suona all’ora dovuta). Per Profane, quanto mai inadeguato a vivere nel tecnologico mondo contemporaneo, appare legittimo domandarsi se esiste la possibilità che, quando si è al telefono, le parole cambino di senso mentre percorrono i cavi sotterranei. Ed è sempre lui a intrattenere paradossali dialoghi esistenziali con i manichini del centro in cui lavora durante i suoi turni da guardiano notturno. Ma il mondo inanimato si incarna in diverse altre sfaccettature nel corso del romanzo. Esther si fa operare al naso dal dottor Schoenmaker, che vorrebbe andare oltre e manipolarla come farebbe uno scultore con un blocco di marmo per tirare fuori la vera essenza della ragazza; Melanie, l’oggetto parigino del desiderio di V., sogna di essere un automa e che un uomo le infili una chiave tra le scapole per farla funzionare; e in una sorta di manichino si trasforma la stessa V. che, nelle sembianze maschili di un prete, viene letteralmente “smontata” da una banda di bambini dopo essere rimasta ferita nel corso di un furioso bombardamento aereo. Il grosso rischio che corre l’umanità contemporanea, sembra voler dire Pynchon, è la sua progressiva disumanizzazione, la sua reificazione, la sua riduzione a cosa tra le cose. E’ questa forse la fantomatica cospirazione universale che si paventa in “V.”, e che trova in quell’Eldorado immaginario che è Vheissu un simbolico e utopico contraltare di primitiva e genuina purezza. Sotto questo aspetto, lungi dall’apparire vacuo e disimpegnato, Pynchon risulta essere un autore addirittura “politico”, in quanto “V.” mette in scena, sia pure in forma quanto mai criptica, un’appassionata difesa della naturalità dell’uomo contro l’oppressivo e alienante dilagare della tecnologia, oltre a mettere alla berlina, attraverso la descrizione di pagine dimenticate della storia mondiale del XX secolo (come lo sterminio della tribù africana degli herero, una sorta di prefigurazione dell’Olocausto), la violenza insita nella politica e nella diplomazia delle grandi potenze per cercare di accaparrarsi il dominio del mondo.
Indicazioni utili
"Le perizie" di William Gaddis"
"L'arcobaleno della gravità" di Thomas Pynchon
Commenti
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Ps: Laura, con Henry James non c'entra nulla, almeno io non ho trovato affinità. E' anche vero che James lo conosco poco ma Pynchon è troppo avanti e moderno.
Ma vi rendete conto che Pynchon ha scritto questa roba qua a ventisei anni?! Non solo per la prosa e la struttura che sono impegnative ma anche per la cultura che aveva già, V. è disseminata di nozioni culturali. Resto basita della sua grandezza.
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ps: aspetto le tue sull'Incanto. Lì ti voglio vedere....ahahahah