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MISTERI SENZA SOLUZIONE
“2666” (titolo criptico quant’altri mai) è, al pari de “I detective selvaggi”, una falsa detective story, una vicenda di misteri e di investigazioni che non portano a nulla e che, al termine delle sue mille ostiche, estenuanti ma ugualmente avvincenti pagine, sembrano soltanto il pretesto utilizzato dall’autore per sfogare il suo bisogno di raccontare storie. La caratteristica del romanzo che salta subito agli occhi è infatti il suo essere un libro-mondo, un libro-labirinto in cui, una volta entrati, ci si può facilmente perdere mentre si seguono le innumerevoli traiettorie che borgesianamente si ramificano senza nessun apparente motivo (si pensi, per fare solo un esempio, alla storia dell’ebreo Ansky all’interno di quella di Reiter, e dello scrittore Ivanov all’interno di quella di Ansky). Il meccanismo è un po’ simile a quello a scatole cinesi del “Manoscritto trovato a Saragozza”, e l’effetto per il lettore può facilmente far scaturire una certa frustrazione quando egli si accorge che alla fine i misteri sono destinati a rimanere irrisolti. Ma se ci si abbandona alla miriade di stimoli e di suggestioni disseminate con incredibile dovizia, alle sotto-storie in cui ogni personaggio secondario porta in dote una nuova storia che non c’entra niente con la trama del romanzo (ma qual è in realtà la sua trama?), allora si è in grado di apprezzare appieno l’incredibile, omerica perizia narrativa di Bolaño. Ecco allora sfilare, apparentemente non necessari eppure a loro modo fondamentali nell’economia del titanico racconto, un organizzatore culturale svevo che aveva conosciuto il giovane Arcimboldi nel corso di una serata con una ricca vedova che aveva rimembrato una giovanile crociera a Buenos Aires; un barbone londinese che fabbricava tazze; un pittore che ha dipinto il suo autoritratto con la mano destra automutilata e imbalsamata; il proprietario di una galleria d’arte, nonché ex-spia, che sente di notte il fantasma della nonna; un tizio che naufraga di notte in un lago e viene salvato perché un aereo precipita vicino a lui; Epstein e la nascita degli snuff movies; e altre centinaia di personaggi che qui non citerò (il quinto libro – “La parte di Arcimboldi” – ne è particolarmente ricco, con quel suo andamento di cronaca picaresca che attraversa un secolo di storia tedesca). Il meglio dell’arte di Bolaño si trova proprio, a mio avviso, negli interstizi della storia principale, nelle digressioni che possono tranquillamente andare dal fantomatico libro “O’Higgins è araucano” fino ad arrivare a Sisifo (quest’ultimo è un gustosissimo exploit che lascia a bocca aperta: lo scrittore cileno paragona le espressioni e le opinioni che gli uomini si portano dietro tutta la vita al leggendario masso di Sisifo, e il mito viene raccontato addirittura per tre pagine – chapeau! - ma con un’unica lunghissima frase piena di spassose notazioni aneddotiche).
Romanzo contenitore di storie (e di sogni, un altro leit motiv dell’arte di Bolaño, che in altra sede sarebbe interessante approfondire), come forse solo Italo Calvino era in grado di scrivere, ma non solo questo. Infatti in “2666” ci si allontana tantissimo dal punto di partenza, ci si trova a viaggiare in epoche e paesi lontanissimi tra loro, eppure alla fine tutto torna. Come nei film sceneggiati da Guillermo Arriaga (anche lui latino-americano, non a caso) un filo conduttore esiste sempre, e Bolaño, dopo avercelo nascosto fin quasi a farci perdere la speranza, lo estrae nelle ultime pagine come il coniglio dal cilindro di un prestigiatore. Il cerchio che si era aperto con i tre critici che girano il Messico seguendo le tracce del loro idolo Arcimboldi, si chiude con il misterioso scrittore che parte per il Centro America, dove si trova incarcerato, accusato di una serie di omicidi, il nipote Klaus (che era comparso nel terzo e soprattutto nel quarto capitolo, quello dei delitti). Ma la rivelazione è solo apparente. I due principali misteri in “2666” non si svelano in realtà del tutto. O meglio, il primo mistero, quello sulla vita e l’identità di Benno von Arcimboldi, viene sviscerato in tutti i più minuti dettagli di una biografia, ma solo per giungere alla conclusione che tra il mito e la persona, tra la figura pubblica e quella privata, tra la proiezione idealizzata ed il suo prosaico prototipo, c’è uno scarto che non è mai possibile riempire, perché l’uomo e la leggenda sono troppo lontani tra loro, addirittura inconciliabili. A questa conclusione Bolaño era già giunto ne “I detective selvaggi”, con il viaggio di Arturo Belano e Ulises Lima alla ricerca della fantomatica poetessa Cesarea Tinajero, che al termine i due trovavano (ben diversa da come avrebbero potuto immaginarsela) solo per vederla morire tra le loro braccia. Non diversamente i quattro critici inseguono un simulacro, un’apparenza che la realtà distruggerebbe se fosse costretta ad uscire allo scoperto e ad annunciarsi al mondo. C’è in questo una sorta di morale meta-letteraria: la verità sulla vita di un artista può essere forse conosciuta (o meglio intuita) da un altro artista (lo scrittore Bolaño, in questo caso), ma mai dai critici (il cui snobismo viene irriso nell’episodio in cui Pelletier ed Espinoza picchiano a sangue un tassista pachistano, rivelando la miseria etica e la brutalità che si nascondono dietro la loro maschera di intellettuali raffinati) o dal pubblico (Belano e Lima nel romanzo precedente).
Del secondo mistero, quello delle brutali uccisioni di donne nella città di Santa Teresa, vicino alla frontiera con gli Stati Uniti, neppure la letteratura può invece darci la chiave. Bolaño elenca col puntiglioso e un po’ pedante stile da redattore di inventari centinaia di omicidi, senza far seguire alla sua entomologica precisione alcuna soluzione, alcun disvelamento. Poliziotti, magistrati, detective, giornalisti, politici e persino medium si aggirano per Santa Teresa e lo stato del Sonora alla ricerca dei colpevoli, ma dei colpevoli non c’è traccia, e solo un innocente capro espiatorio rischierà di pagare per tutti. In realtà, se il plot poliziesco lascia insoddisfatti (mi è tornato alla mente un film coevo come “Zodiac”, di David Fincher, il quale aveva un andamento analogamente frustrante), non di solo fumo si tratta, ma di un ben sostanzioso arrosto. Infatti, leggendo in controluce i capitoli “messicani” (e confrontandoli con gli episodi inquietanti, e in questo caso purtroppo reali, verificatisi qualche anno prima a Ciudad Juarez), si intravede un chiaro atto di accusa nei confronti della illegalità diffusa, della corruzione, della connivenza tra politica, forze dell’ordine e criminalità organizzata, che allignano in Messico. Non c’è quindi un colpevole (o alcuni colpevoli), ma ad essere colpevole (o connivente) è un marcescente sistema di potere che erige un vero e proprio muro di gomma di fronte ad ogni serio ed onesto tentativo di modernizzare e moralizzare il Paese, e che rende la fuga e l’esilio (come quello della figlia di Amalfitano) l’unica alternativa realmente percorribile. Tutto questo è lungi dal trasformare “2666” in una sorta di pamphlet ideologico, perché le ambizioni di Bolaño vanno molto al di là della semplice denuncia, e mirano ad esempio a riflettere (ovviamente col suo sguardo frammentario e destrutturato di cui si è detto, quindi anti-sistemico e anti-filosofico) sulla ineluttabilità e sulla banalità del male. Ciò che avviene a Santa Teresa non è poi così dissimile da quello che si è avuto modo di riscontare nel corso della Seconda Guerra Mondiale: e cioè che la violenza è profondamente insita nella storia dell’uomo, e che gli efferati assassini del Sonora e i nazisti che sterminavano gli ebrei nei lager differiscono solo per il numero dei loro crimini da tutti coloro che, all’apparenza brave persone come il montanaro Leube o l’ex funzionario Sammer, hanno pure essi ucciso continuando a vivere come se niente fosse. In questo senso “2666” è un’opera profondamente pessimista (anche se di un pessimismo che non esclude la leggerezza e l’ironia), probabilmente influenzata dall’approssimarsi di Bolaño alla propria fine, e neppure l’arte o la scienza paiono in grado di ergersi a panacea di tutti i mali, perché i tanti personaggi del libro che bazzicano per esempio l’ambiente della letteratura sono ben lungi dal rappresentare una soluzione ai problemi del mondo e possono al massimo (come nel caso del libro di Ansky trovato in un nascondiglio da Reiter-Arcimboldi) offrire un aiuto meramente individuale.
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PS: Permettimi di segnalarti due piccoli refusi: i critici letterari della prima parte sono quattro e l'ultimo romanzo invece è " Dalla parte di Arcimboldi". L'episodio in cui Pelletier ed Espizosa, che erano insieme a Liz in una specie di triangolo amoroso, e che picchiano a sangue il tassista ha turbato anche me perché questa violenza brutale finisce per dare una specie di orgasmo ai tre amici, una scena molta forte che mi è rimasta impressa.
ps: Klaus nella seconda parte, "La parte dell'Amalfitano", mi manca...non me lo ricordo in quale circostanza compare.
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