Dettagli Recensione
Il più grande
Un assioma della letteratura recita che ogni scrittore immette nelle sue storie parte di se stesso, della sua esperienza di vita, e del suo modo di intendere l’esistenza.
Per alcuni, meglio che per altri; capita perciò di incontrare chi sa riversare mirabilmente sulla carta le passioni, i brividi, i batticuori e le impressioni non per sentito dire, ma sperimentate direttamente sulla propria pelle nel corso del proprio arco vitale.
Tratteggiando di conseguenza i protagonisti principali delle storie inventate, ma con un substrato reale, basandosi sulla propria persona, almeno nei caratteri emozionali.
Questa verità incontestabile si adatta come non mai alla figura e alle opere di Ernest Hemingway, a mio modesto parere il più grande scrittore dei tempi moderni.
Intendiamoci, non il più bravo, ma il più grande.
Perché Hemingway aveva un modo di scrivere tutto suo, che può non piacere, e a tanti, in effetti, non piace, ve lo dico subito, qualcuno lo giudica anche pesante e noioso.
Presenta uno stile di scrittura, di conversazione, un’esposizione di luoghi, fatti e dialoghi resi con un timbro asciutto, essenziale, a volte laconico e inespressivo, non ermetico ma troppo intimista, talora anche ridondante e “in sospeso”, se così si può dire.
Usa cioè periodi lunghi, talora scoordinati con l’azione che sta descrivendo, fa decorrere il tempo in considerazioni, mentre si “attende” il seguito delle azioni che sta descrivendo, della storia che racconta.
Che racconta, appunto, perché Hemingway non scrive, racconta.
Le sue opere migliori, il meglio di sé, lo offre nei racconti, non nei romanzi.
Lo si rinviene nei pezzi giornalistici, il suo primo impiego, nei resoconti, nelle cronache da inviato sui fronti di guerra prima, e poi anche dopo, nelle arene delle corride spagnole, ad esempio, quasi fosse un cronista sportivo, un Niccolò Carosio della tauromachia, intento a descrivere le evoluzioni nell’arena di toreri, tori, matador, tra sangue e sabbia resi davvero vividi dai suoi scritti.
Oppure quando racconta del mare, di Cuba, di barche a vela, altre sue passioni.
Hemingway non scrive romanzi, si racconta. Quello che dice, l’ha vissuto. Provato. Sperimentato.
Racconta fatti che l’hanno visto protagonista, e le emozioni che ha provato vivendole.
Perciò non possono essere intese da tutti. Come non è da tutti aver vissuto com’è vissuto lui, certo.
Però a lui è toccato, e gli è toccato vivere certe esperienze e non altre, provare certe sensazioni e non averne solo notizia, perché se le è andate a cercare. Una scelta di vita.
È stato cacciatore e pescatore appassionato (“I quarantanove racconti”), autista di ambulanze sul fronte di guerra italiano durante la prima guerra mondiale (“Addio alle armi”), ferito gravemente e sul punto di morte. Reporter nella guerra civile spagnola e combattente del fronte della libertà (“Per chi suona la campana”), diretto osservatore della tragedia della seconda guerra mondiale (“Di là dal fiume o tra gli alberi”), si è guadagnato medaglie al valore e onorificenze militari, ha reinterpretato a modo suo il “Moby Dick” di Melville usando Santiago un vecchio pescatore bruciato dal sole, e un pesce di dimensioni minori, uno squalo che passava nei paraggi (“Il vecchio e il mare”).
In tutto questo trova pure il tempo di frequentare intimamente intellettuali come Gertrude Stein e Francis Scott Fitzgerald nella Parigi nel pieno del suo splendore artistico, entrando a far parte a pieno titolo della corrente letteraria della “generazione perduta”.
A tempo perso, così, giusto perché si trovava passando, vince un Pulitzer ed è insignito del Premio Nobel per la Letteratura.
E al termine della notte, spente le luci delle emozioni intense, le uniche che gli fornivano l’energia indispensabile per affrontare il grigiore della quotidiana esistenza, toglie il disturbo, suicidandosi.
Il più grande, per davvero, prima come uomo formidabile, e poi come scrittore, quasi una conseguenza obbligata. Una scelta di vita la sua, quella di vivere alla grande, del tutto rispettabile.
Come si conviene al più grande.
“Per chi suona la campana” deve parte del suo successo al film omonimo con la bellissima attrice Ingrid Bergman, da giovane: scordatevelo. Il romanzo è tutt’altra cosa.
Il libro è un racconto delle ragioni di una precisa scelta di campo.
Il protagonista, Robert Jordan, è un membro importante della Brigata Internazionale, l’organizzazione di volontari che combatterono a fianco degli insorti antifranchisti contro l’esercito fascista durante la guerra civile spagnola, incaricato di far saltare in aria un ponte ritenuto essenziale ai fini strategici della guerriglia.
L’attacco al ponte, e i relativi preparativi, sono l’occasione per una disamina politica e sociale della Spagna sotto il giogo fascista di Franco, attraverso un racconto a più voci dei partigiani coinvolti e reclutati per far saltare il ponte.
Entrano in scena figure semplici e complesse insieme, dai nomi tipici e caratterizzanti: El Sordo, un capo partigiano, coraggioso quanto pusillanime e opportunista, Anselmo, il partigiano vecchio saggio della banda, Pablo, capo della guerriglia, Maria, protagonista di una breve quanto intensa e struggente storia d’amore con Robert Jordan, Pilar, una vecchia partigiana che ha preso Maria sotto la sua tutela, e poi altri giovani e meno giovani, Fernando, Andrés, il giovane Primitivo, il comunista Joaquín, e altri ancora.
Un vero e proprio coro greco, un insieme di voci diverse e variegate, tutte declamanti all’unisono la stupidità, la follia assurda e incredibilmente distruttiva della guerra per gli uomini e le cose di ambo gli schieramenti, con la natura muta e attonita spettatrice.
Una disamina lucida e spietata sull’inutile crudeltà, la stoltezza di gesti, violenze, capitali impiegati in armamentari di morte anziché in strutture e apparati di gioia e di pace, come sarebbe semplicemente più umano.
Di qui, la necessità di schierarsi, di provare a ripristinare l’ordine naturale delle cose, quello più equo e salubre, estirpando l’erba velenosa.
Una scelta di campo, una scelta di vita.
E dopo, farne ammenda, perché il sangue non si cancella, qualsiasi sia il colore, il sangue ha memoria. Il sangue richiama sangue, è il vecchio Anselmo che lo ricorda. “…dopo bisognerà fare ammenda, bisognerà espiare in qualche modo, fare il bene, insegnare il bene.”
Dopo. Ora il ponte va fatto saltare in aria.
Anche se magari non servirà a molto nel decidere i destini della guerra.
Ma va fatto. A qualsiasi costo.
Anche a rischio di perdere non tanto la tua vita, non tanto l’amore della tua vita., ma la Vita stessa.
Per farlo, c’è un’unica via: schierarsi dalla parte giusta. Fare una scelta di campo.
Una scelta di vita. Non tutti ci riescono. Solo alcuni, solo qualcuno.
Il più grande.
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Commenti
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Ma questo libro incute soprattutto rispetto, va bene così .
Complimenti per questa segnalazione
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