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Rogelio Céron
Gexto, 1937. Siamo nel pieno di un periodo storico estremamente complesso e che rappresenta uno spaccato di storia che non può essere dimenticato. E lui è Rogelio Céron, un giovanissimo falangista di diciannove anni che aiuta insieme ai suoi amici i vittoriosi “franchisti”. A fare cosa? A ripulire la Spagna dai rossi separatisti. Come? Durante la notte e nei modi meno leciti perché nessuno deve potersela cavare, nessuno può sottrarsi e deve sottrarsi al regime del comandante Franco. Notti con protagoniste quelle “passeggiate” da cui nessuno fa più ritorno. Perché i nemici vanno estirpati come radici di piante velenose. Devono pagare con la vita la loro insurrezione. Per sbarazzarsi del corpo quale miglior modo di fosse comuni o di abbandoni in piena regola nel luogo dell’uccisione? Corpi che per questo non hanno né un funerale né una sepoltura di alcun genere.
Una storia di vita, questa, che ad un certo punto prende una piega inaspettata. Una piega tale che lo porta a vedere in modo diverso quel che il regime franchista impone e che lo porta a staccarsi da quel in cui credeva finendo con il seguire pensieri autonomi e proprie sensazioni.
Il cambiamento ha inizio da Gabino, il figlio del maestro denunciato che conosciamo quasi subito e che all’età di dieci anni vede suo padre e suo fratello sedicenne portati via da sei uomini. Lo sguardo si ferma su Rogelio perché in quel gruppo di carnefici c’è anche lui. E quest’ultimo mai dimenticherà quello sguardo. Il tumulto interiore è tale da funzionare come molla. Quando, ancora, scopre che i cadaveri dei due uomini sono scomparsi sa che il responsabile è il bambino. Quel bambino che lo trafigge nel pensiero, quel bambino che sembra bramare vendetta.
«Che cosa mi è successo per credere che questo marmocchio mi ucciderebbe nel corso del tempo? Sono venuto, sì, ma si tratta di compassione, il dolore costringe il poveretto a fare qualcosa per i suoi cari, occuparsi della loro tomba, starle vicino, abbellirla e in un certo senso è logico che chieda l’aiuto di uno dei carnefici... mi ha scelto. Tutto qui.»
Decide per questo di trasferirsi in campagna e di vivere in un appezzamento di terra nuda. Si ciba dei doni di Cipriana, la moglie del sindaco, e vive come un eremita incurante di quel che gli accade intorno. Il soprannome di Ficodindia viene naturale quando su quel pezzo di terra brulla sorge un fico, un fico da cui tutti scaccia e che protegge con cura. Ma il passato non lo abbandona, è marchiato. Tutti sanno chi è stato. Tutti sanno quello che ha fatto. Tutti sanno a chi appartiene. È un clima di terrore che non consente di essere liberi. È un clima in cui il pensiero ha il sopravvento perché nella solitudine si può riflettere, valutare le proprie azioni, capire cosa si può davvero aver imparato o non imparato nella vita fino a raggiungere l’armonia.
Questo e molto altro ancora è “L’albero della vergogna” di Ramiro Pinilla. Un libro caratterizzato da una penna meticolosa e precisa, una penna doviziosa che non lascia niente al caso e che al contrario si prefigge di solleticare la curiosità storica del lettore, da un lato, e la sua bramosia di sapere, dall’altro. Nella personalità di Rogelio il conoscitore carpisce, il conoscitore si rispecchia. Soffre, medita, si interroga. Ricerca insieme al protagonista la rinascita. Il tutto in un connubio di emozioni che vanno dall’amore, all’odio, alla vendetta, alla nuova possibilità per quel futuro che ci osserva dal filo dell’orizzonte.
Un elaborato solido, con un personaggio stratificato e forte perché fedele a se stesso e a quei sentimenti che trovano linfa nella possibilità di una redenzione. Un componimento che è il ritratto vivido e profondo di una pagina importante del percorso dell’umanità.
Intenso, articolato, introspettivo, dal contenuto duro e forte, sensibile. Un autore che è una grande scoperta e per la quale dobbiamo ringraziare Fernando Aramburo.
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Davvero molto interessante!