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CAPOLAVORI DISSACRATI
“L'arte, anche se la malediciamo e se a volte ci sembra del tutto pleonastica, e se anche siamo costretti ad ammettere che essa in realtà non vale un accidente, […] malgrado tutto non c'è nient'altro che salvi la gente della nostra fatta se non proprio quest'arte maledetta e dannata, e spesso funesta e disgustosa da far vomitare.”
“Antichi Maestri” ha come sottotitolo “Commedia”. Come tutti i sottotitoli di cui Bernhard ama corredare le sue opere, anche questo è significativo, in quanto l’autore, con le sue iperboliche e parossistiche invettive (che qui, oltre ai consueti bersagli – lo Stato austriaco, la Chiesa cattolica e la famiglia – coinvolgono anche gli insegnanti e gli storici dell’arte, gli scrittori contemporanei e gli architetti dello Jugendstil, e perfino il Prater e le toilette viennesi), muove spesso il lettore al sorriso, proprio perché l’esagerazione è portata a livelli talmente estremi (il protagonista Reger si professa musicologo, ma pur essendo un esperto dell’arte della fuga, definisce Bach un “ciccione puzzolente”) che l’ininterrotto monologo polemico di duecento pagine assomiglia a volte più al delirio etilico di un ubriaco che a una critica razionalmente motivata. Eppure il sottotitolo di “Antichi maestri” è anche ingannevole, perché, se è vero che il mondo bernhardiano è una caricatura grottesca e che “le cose più atroci sono sempre anche comiche”, man mano che il romanzo procede si insinua in esso un’impalpabile aria da tragedia, e il sorriso si trasforma progressivamente in una smorfia di dolore. L’ottantaduenne Reger, che da più di trent’anni si reca, rigorosamente a giorni alterni, al Kunsthistorisches Museum di Vienna per trascorrere l’intera mattinata davanti all’”Uomo con la barba bianca” di Tintoretto, è infatti un individuo profondamente solo e sofferente, che probabilmente si disprezza per essere riuscito, nonostante che le sue reiterate affermazioni passate lasciassero supporre il contrario, a sopravvivere alla morte dell’amata consorte, e che affronta il crepuscolo della sua esistenza con un animo esacerbato e offeso. Reger, che è un evidente alter ego dell’autore, ha confidato per tutta la sua vita nell’arte, appoggiandosi a Shakespeare, a Kant e a tutti gli Antichi Maestri dello spirito, ma nel momento del bisogno si è amaramente accorto di essere stato ingannato. “Tesaurizziamo gli spiriti magni e gli Antichi Maestri credendo di poterli utilizzare in seguito per i nostri fini nel momento decisivo per la sopravvivenza, […] ma quando l’apriamo, la cassaforte dello spirito è vuota, la verità è questa, siamo lì, davanti alla cassaforte dello spirito vuota e ci accorgiamo di essere soli e privi in effetto di qualsiasi risorsa”). L’ambivalenza morale del romanzo (che si può compendiare nella frase “Cosa non pensiamo e cosa non diciamo nella convinzione di essere competenti, eppure non lo siamo, questa è la commedia, e quando ci chiediamo, e poi? quella è la tragedia”) si riflette sullo status stesso dell’opera d’arte. Fin dalle origini del mondo l’uomo va in cerca del perfetto, dell’eccellente, del sublime, e i capolavori della pittura, della musica e della letteratura hanno sempre rappresentato la meta ideale di questa ricerca. Reger, come detto, non fa eccezione, ma pur avendo venerato e ammirato in passato i grandi artisti, si è reso infine conto di non essere più in grado di tollerare altro se non un frammento dei loro lavori (“Il piacere più grande ce lo danno i frammenti, e non a caso nella vita proviamo il più grande piacere quando la vita stessa ci appare come un frammento, e come il tutto è per noi raccapricciante, com'è orribile, in fondo, la perfezione di tutto ciò che è compiuto. […] Il tutto e il perfetto ci risultano insopportabili, diceva. Così in fondo anche tutti questi quadri, qui al Kunsthistorisches Museum, io li trovo insopportabili […] Solo dopo aver constatato ripetutamente che il tutto e il perfetto non esistono, solo allora ci è dato di continuare a vivere”). Reger, che professa di essere, più che un lettore, uno sfogliatore (“E' senz'altro meglio, di un libro di quattrocento pagine, leggere solamente tre pagine, ma leggerle in profondità”), che disprezza le opere dei grandi maestri perché, dopo averle studiate accuratamente, rivelano desolatamente di essere “la rappresentazione della sprovvedutezza, dell’inettitudine, del fallimento, la parte abborracciata del mondo”, che si domanda perché i pittori dipingano dal momento che c’è già la natura (“Eppure anche l'opera d'arte più straordinaria è solo un misero tentativo, completamente assurdo e vano, di imitare, o addirittura di scimmiottare la natura. Che cos'è il volto della madre di Rembrandt, da lui dipinto, di fronte al volto vero di mia madre?”), Reger nonostante ciò non può fare a meno di ricorrere all’arte come l’estrema risorsa per poter sopravvivere alla disperante mancanza di senso della vita. In questa aporia è contenuto tutto l’angoscioso dramma della condizione umana. Reger, che cerca compulsivamente gli errori palesi nei quadri degli Antichi Maestri, pur non riuscendo a smettere di subirne il fascino, è un po’ come un ateo il quale, dopo aver passato la vita a distruggere le prove presunte dell’esistenza di Dio, sia costretto alla fine a riconoscere a malincuore che alla divinità non può rinunciare per dare un senso all’esistenza (oppure come Pascal che, nella sua famosa scommessa, pur ritenendo ammissibile l’inesistenza di Dio, giunge alla conclusione che in fondo a Dio conviene credere). Quella rappresentata da Bernhard è quindi una sofferenza ontologica, che investe la condizione umana tout court, anche se, per mezzo della sua lucidità e del suo acume intellettuale, lo scrittore austriaco non rinuncia ad affrontare con ironia e leggerezza importanti questioni estetiche. E’ emblematica ad esempio la riflessione sui concetti di copia e di originale che egli fa a partire dal divertente episodio del turista inglese che si reca al Kunsthistorisches Museum perché a casa sua possiede un quadro di Tintoretto uguale fin nei minimi dettagli a quello oggetto delle maniacali osservazioni di Reger. Dal momento che l’opera d’arte imita la natura, essa per Bernhard è sempre per definizione una copia, quindi non ha più senso distinguere tra l’originale e la sua riproduzione.
“Antichi Maestri” è scritto con il consueto stile bernhardiano, fatto di ossessive ripetizioni (si prenda ad esempio quel passo in cui le parole “volgare”, “ipocrita”, “bugiardo”, “malvagio”, “abietto” e “stupido” ruotano vorticosamente per diverse pagine, variamente combinate tra loro, per connotare non solo lo Stato, la società e le istituzioni austriache, ma l’intera umanità, in un grottesco carosello sulla scelleratezza umana), in una successione ipnotica e priva di interruzioni di sorta. Mi piace sottolineare, al di là della sua apparente semplicità, la complessità della scrittura di Bernhard, sia dal punto di vista spazio-temporale che da quello del ritmo. Per quanto riguarda lo spazio ristrettissimo che fa da teatro alla vicenda (due sale attigue del Kunsthistorisches Museum), esso è esaltato dal geometrico gioco di sguardi che si intreccia tra i vari personaggi: Reger nella sala Bordone contempla il dipinto di Tintoretto, Atzbacher spia Reger dalla sala Sebastiano, mentre a sua volta il custode Irrsigler osserva sia Reger che Atzbacher. Dal punto di vista temporale, invece, la brevissima durata della storia (poco più di un’ora) è dilatata dalla contemporanea rievocazione mentale dei colloqui (che in realtà sono dei monologhi, dal momento che Atzbacher è, al pari del Gambetti di “Estinzione”, la vittima consenziente e silenziosa della logorrea di Reger) avuti in passato dal narratore con Reger. Infine, il ritmo di Bernhard si rivela straordinariamente musicale. Non mi sembra un caso che in “Antichi Maestri” si citi l’arte della fuga, perché i romanzi di Bernhard procedono proprio come delle “fughe”. La melodia iniziale (pjer fare un esempio, l’invettiva contro gli insegnanti) viene ripresa e imitata, ma sempre con una piccola differenza, un esiguo scarto (se ci si fa caso, Bernhard non ripete mai la stessa precisa espressione, la cambia sempre un pochino, magari impercettibilmente), e così via, fino a sfociare in una nuova melodia (sempre per seguire l’esempio di prima, la polemica contro la scuola di Stato, e poi contro gli artisti di Stato, ecc.) e in nuove risposte. Le famose ripetizioni di Bernhard risponderebbero così a un criterio per così dire contrappuntistico, che conferisce a mio parere quel carattere così inconfondibilmente musicale alle sue opere. Oscillando tra seriosità e understatement, lo scrittore austriaco avvince il lettore con una non-storia di ben duecento pagine. Con impareggiabile astuzia narrativa, egli fa anche balenare lungamente la possibilità di un colpo di scena conclusivo (l’ignoto motivo della convocazione di Atzbacher il giorno dopo il precedente incontro tra i due, cosa quasi inconcepibile per l’abitudinario Reger, che si reca al museo un giorno sì ed uno no!), ma arrivato al dunque scioglie beffardamente il mistero con sottile humour, rivelando che non c’è mai stato alcun vero mistero: Reger vuole semplicemente invitare Atzbacher ad assistere insieme a lui ad una rappresentazione teatrale de “La brocca rotta” di von Kleist, perché alla sua età non se la sente più di andare a teatro da solo. “La sera mi recai effettivamente con Reger al Burgtheater a vedere La brocca rotta, scrive Atzbacher. Lo spettacolo era tremendo.” Chapeau.
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Interessante l'associazione della fuga musicale con lo stile dell'autore. Sono d'accordo, è veramente azzeccata e illuminante! Le ripetizioni come contrappunto, questo correre nell'elencare difetti, quasi ti passa davanti, si allontana...lo.senti affievolirsi e poi...rincara di nuovo la dose con nuovi rimbrotti e brontolii. Pazzesco!
Bravo Giulio!
No, non ho potuto terminare la lettura, confesso che sono totalmente sommersa da questi hangout meet, zoom, portale argo compiti lavoro Smart e via dicendo.
A me lo spoiler non interessa, mi piace lo stile piu della storia, come anche a voi, però la recensione viene letta da tante tante persone non solo QFriends del GdL.
Sì sono d'accordo: per i grandi capolavori universali non esiste recensione reticente, a meno che non si voglia solo leggere una sinossi.
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