Dettagli Recensione
Un dolore che non ha fine
Brevi, inevitabili spoiler.
Questo è uno di quei libri che meriterebbero, in copertina, una fascetta con scritto “maneggiare con cura”. Questa è un recensione difficile perché uscire dal mondo di “Una vita come tante”, un mondo che lascia stremati, esangui, quasi annichiliti, è compito durissimo per il lettore su cui le pagina abbiano inciso cicatrici a ogni frase. La vera domanda cui si deve rispondere prima di intraprendere la lettura delle oltre mille pagine di questo libro è: quanto dolore possiamo sopportare? Perché Hanya Yanaghihara sprofonda quanto più possibile nelle pieghe laceranti dell’abuso, della sopraffazione, dell’autolesionismo e costantemente, quasi stregata da una maledizione, la coazione a ripetere, a perseverare nel male, ci ricorda che l’uomo può amare, certo, ma anche e, soprattutto, ferire, massacrare, uccidere.
“Una vita come tante” è la storia di quattro amici, che la scrittrice segue dal college all’età adulta, in quarant’anni delle loro vite che si dilatano nei continui ricordi, nei tentacoli aggrovigliati di un passato che non lascia scampo. C’è JB, artista ambizioso, Malcom, aspirante architetto, Willem, bellissimo e seducente, cameriere prima, attore poi e alla fine, anzi, soprattutto, Jude. Questo romanzo in fondo potrebbe intitolarsi “Vita di Jude”: fragile, delicato, quasi potesse rompersi fra le mani; Jude che vuole diventare avvocato e che pure frequenta un corso di matematica pura, Jude che non crede in se stesso, che cammina con difficoltà, immobilizzato a volte da attacchi quasi convulsivi che lo pugnalano in ogni parte del corpo. Jude che porta sempre e solo le maniche lunghe, per nascondere i tagli che si fa sulle braccia, lembi di pelle percorse da una trame infinita di cicatrice, pezzi di carne che si staccano quando non sa controllare quel dolore che pure pensa essere la propria colpa da espiare. Jude, silenzioso e geloso dei suoi segreti, dei suoi misteri, Jude, che sùbito intuiamo, ha subìto qualcosa di atroce da bambino. Preparatevi, respirate, se non siete pronti chiudete questo libro, perché quello che riserverà progressivamente sarà il corpo di Jude bruciato, frustato da bambino, in monastero, violentato dai monaci; sarà lo stesso corpo costretto da un uomo a prostituirsi con uomini o gruppi di uomini nei motel degli Stati Uniti, un uomo che diceva di amare questo bambino di otto o nove anni; e ancora sarà lui a essere rapito, seviziato e stuprato da uno psichiatra, investito dalla sua auto, dopo essere fuggito ancora da altri abusi terribili, quelli nell’orfanotrofio. Ecco se resistete a questo, a questo corpo su cui il destino si è accanito, su questo bambino a cui hanno tolto tutto, forse non siete ancora pronti: perché c’è altro dolore da affrontare, quello dell’autolesionismo, quello della vittima che si sente colpevole, quello di Jude che anche se ricco, di successo, anche se ha trovato una nuova famiglia, penserà sempre di non meritare nulla, di dover obbedire alla bontà rara degli altri, a cedere, a mentire, a lasciarsi prendere dalla fame, stordito dal dolore alle gambe sempre più feroce, inebetito da un abbraccio, trepidante per un bacio. Jude che non saprò mai se è etero o omosessuale, perché “fin da piccolo ho conosciuto solo gli uomini”, più grandi, più sporchi, più disgustosi; Jude che avrà paura del sesso, del contatto con un corpo, Jude che non riuscirà più ad avere un’erezione e non perché è stato investito, ma perché per lui non c’è più niente che possa essere salvato. E se anche siete pronti a tutto questo, se anche vi sentite in grado di sopportare per mille pagine di sofferenza, sappiate che non c’è mai fine, che la tragedia si annida ovunque e che all’orizzonte ci sono, nonostante qualche luce, altre morti, altri abusi, altre malattie.
Ho provato a sintetizzare la storia, con qualche concessione di più alla trama, perché questo non è un libro adatto a tutti, anzi forse solo a pochi. Hanya Yanaghihara ha delle evidenti lacune tecniche: gestire un libro così lungo che fluttua perennemente tra passato e presente, da più punti di vista (quello dei quattro amici, ma anche di altri comprimari), crea qualche problema non solo nell’uso dei verbi, che talora barcollano nell’alternanza di imperfetto, passato remoto e presente, ma anche nella gestione delle anticipazioni e dei flashback, generando un tempo zoppicante, ferito com’è anche da improvvise ellissi che spostano l’attenzione di anni nel giro di poche righe. E, a dirla tutta, nessuna frase di questo libro, presa isolatamente, merita forse troppa attenzione, nel senso che lo stile è molto piano, non gode di nessuna variazione particolare, di nessun guizzo. E anzi ho trovato quasi sgradevole che una storia tanto dolorosa come quella di Jude sia stata dilazionata e frammentata per creare un po’ di suspense, come fosse un giallo o una spystory qualunque. Eppure c’è qualcosa in quello che viene narrato, nella vivida rappresentazione dei corpi e dei personaggi, nell’inarrestabile trasporto sentimentale che annulla il tempo della lettura e fa bere pagine su pagine, che rende questo libro imperfetto un ingranaggio emotivo inarrestabile, capace com’è di demolire punto per punto ogni speranza residua, di lasciare, dopo la fine, solo un campo devastato e sterminato di sbigottimento, dolore, tristezza. E dunque per quanto il lettore provi a mantenersi oggettivo, le pagine della Yanaghihara lo costringono ad ammettere che molto raramente ha provato, nel leggere qualcosa, lo stesso tremore, la stessa compartecipazione, la stessa violenta identificazione con i personaggi. Vi confesso che ho letto questo libro tenendo in una mano il libro e con l’altra attorcigliandomi i capelli, tanto era la tensione che stavo accumulando e che non riuscivo in altro modo a manifestare.
Non so se riuscirei a rileggerlo, troppo dolore anche per me, eppure mi resta una commozione tanto pura e vera che non posso esimermi dal consigliarlo. Chiudo soltanto sottolineando come oggi ci sia molta attenzione, con ogni ragione, alla violenza sulle donne e sui bambini, ma che spesso dimentichiamo la violenza sui ragazzi, magari quelli un po’ troppo esili, un po’ troppo efebici, troppo aggredibili, quelli che qualcuno gode ancora di più nello sporcare, nello sfregiare, nel possedere. Succede purtroppo ogni giorno, anche se in modo più sottile e infidamente meno fisico di quanto accade a Jude, ma questo non lo rende meno doloroso.
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Personalmente, trovo sgradevole la copertina. Un libro, inoltre, 'da maneggiare con cura' come un oggetto pericoloso o un farmaco portatore di possibili fastidiosi effetti collaterali.
Quando parli della scrittura, dello stile, colgo riserve .
Nell'insieme, le mie curiosità si appiattiscono del tutto : volentieri lascio.
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