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Coazione a ripetere
Si nasce e si muore nell’acqua, continuamente: quella di una piscina, o del mare, quella di una doccia, sporca, pulita, macchiata di sangue o invasa di ruggine. Acqua che fa nascere e mutare, acqua che fa morire. E nel mezzo dell’acqua, corpi. Corpi di uomini, di donne, di transessuali, corpi di bambini, corpi nudi, spalancati, maciullati, crivellati, corpi ammaccati, affamati, corpi che corrono e che vivono, prima ancora della volontà. È una vecchia storia, quella della vita, cieca, disperata, sorda, vita che perpetua se stessa, nella morsa della ripetizione e sullo sfondo di relazioni umane tanto assolute quanto spersonalizzate. Sette volte per sette capitoli, sette inizi, riflessi e sfrangiati in una miriade di specchi, vittime innocenti diventate carnefici, violentatori stuprati, bambini che muoiono e uccidono. E su tutto la stessa piattezza, lo stesso tono, la stessa atona inquadratura che impassibilmente descrive l’orrore che accade.
Non credo sia un caso che Littell abbia dedicato un libro, “Trittico”, alla figura di Francis Bacon: chi ha in mente i dipinti inquieti e disperati del pittore irlandese, non fatica a rivedere nei corpi descritti da Littell la stessa intensità dolorosa, la stessa violenta contorsione, le membra stirate, accartocciate, quasi dilaniate, perché il corpo, prima ancora della peronsa, pensa e agisce, subisce e crea, nella sua chiusura e nella sua dolorosa apertura. A tenere le fila di questo labirintico libro, il filo rosso della violenza. Rubo le parole alla scrittrice Sarah Kane per spiegarne la logica:
“La logica conclusione dell’atteggiamento che produce un caso isolato di stupro in Inghilterra è la violenza etnica in Bosnia. E la logica conclusione di come la società si aspetta che gli uomini si comportino in guerra.”
Ogni capitolo scritto da Littell, esplorando prima la famiglia, poi la coppia, poi ancora la solitudine e il gruppo, esita sempre in una scena di guerra, perché la violenza nel piccolo cresce e si manifesta nel grande, perché la violenza di un bambino che gioca con i soldatini è la stessa del generale che massacra i prigionieri. Nell’universo di Littell ogni azione ha lo stesso peso: mangiare, bere, dormire, evacuare e dunque la scrittura riporta tutto senza enfasi, senza scomporsi, come un cronista che assista al massacro. E in questa scrittura volutamente neutra, mi pare di leggere un dolore profondissimo, quello di chi ha visto l’oscenità del mondo e non sa ritrovare un briciolo di luce per sostenere la speranza. Detto altrimenti, questo è un libro di intenso nichilismo, ma un nichilismo che procede non per esplosioni e distruzioni, ma per un costante e perpetuo livellamento di ogni rilievo della realtà.
Quello che non funziona è che la ripetizione del modello per sette volte appare non necessaria e pleonastica e che la scrittura, come la violenza, finisce per alimentare sterilmente se stessa. Specie nelle scene in solitaria, quando l’azione non supporta l’attenzione, il libro scivola pericolosamente come una vite che gira e rigira scavando quello che è già stato scavato. E il sesso e la violenza che vivono sulle pagine appaiono alla fine come inutile gratuità. Solo alla fine, quando tutta la parabola è stata percorsa, in una rapida e improvvisa apertura, il dolore dello scrittore si manifesta nella sconcertante e assoluta disperazione della solitudine.
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