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L'ESTINZIONE DEL TEMPO PERDUTO
“La mania di persecuzione è finita, pensai. Sono morti. Sei libero.”
Non è facile penetrare nell’universo di Thomas Bernhard, soprattutto se – come è accaduto a me – lo si legge per la prima volta e senza conoscere quasi nulla della sua biografia. Il mondo dello scrittore austriaco è infatti ostile, freddo, rancoroso, un mondo, almeno in apparenza, privo di luce e di qualsiasi barlume di speranza, in cui il lettore non viene mai messo nella posizione di sentirsi a proprio agio, anche perché i suoi libri non assomigliano a niente che si sia mai letto prima. All’inizio il personaggio di Murau, che accoglie con totale apatia e indifferenza il telegramma recante la notizia dell’improvvisa morte dei genitori e del fratello, mi ha fatto pensare allo Straniero di Camus, ma è stata solo una pista falsa, ingannevole. Dell’esistenzialismo camusiano c’è infatti soltanto la presenza continua, asfissiante della morte (emblematicamente sottolineata già dalla citazione posta in esergo), ma ogni possibile parentela tematica finisce qui. Senza alcun saldo e tranquillizzante punto di riferimento a fare da guida, ho fatto una terribile fatica a districarmi nelle sabbie mobili della prosa paratattica e ossessivamente ripetitiva, scabra e quasi catatonica, di Bernhard. Col trascorrere delle pagine, dopo essermi più volte chiesto se Bernhard c’era o ci faceva, mi sono però trovato ad essere irresistibilmente catturato, quasi ipnotizzato, dal suo originalissimo modo di scrivere, e questo personaggio francamente antipatico, livoroso, senza peli sulla lingua e moralista fino al midollo, è riuscito alla fine a ritagliarsi, nella mia personale classifica, un posto tra i grandi polemisti della storia della letteratura (accanto, se non addirittura sopra, all’uomo del sottosuolo di Dostojevskij o all’Herzog di Saul Bellow). “Estinzione” è infatti, prima di ogni altra cosa, un romanzo all’insegna dell’invettiva. Bernhard non risparmia niente e nessuno e lancia acuminati e velenosi strali contro tutto e tutti, contro la fotografia (che egli definisce nientemeno che la più disumana di tutte le arti) e i critici d’arte, contro i diplomi e i titoli accademici, contro gli insegnanti e i giudici, contro gli architetti e i politici austriaci, e addirittura contro i mostri sacri della letteratura tedesca, Wolfgang Goethe (alla cui figura riserva epiteti come “acchiappatopi della filosofia”, “becchino dello spirito tedesco” e “filisteo della filosofia che coltiva il suo orticello di periferia”) e Thomas Mann (che avrebbe composto, secondo lui, una letteratura piccolo borghese, da funzionari). Soprattutto l’astio di Bernhard si rovescia sulla Chiesa cattolica, inesorabilmente compromessa – secondo lui – con il nazionalsocialismo e direttamente responsabile dell’infelicità dell’uomo in generale, e del popolo austriaco in particolare (“La Chiesa cattolica ha sulla coscienza l’uomo distrutto, restituito al caos, in definitiva infelice fino al midollo”). Come un fiume in piena, l’invettiva bernhardiana travolge gli argini della civiltà contemporanea, dalla religione alla politica e all’arte, fino a minare irreparabilmente il caposaldo stesso, il fondamento più naturale di ogni società, ossia la famiglia. Nei confronti dell’istituzione familiare, intesa come prigione dello spirito e trappola che tarpa inesorabilmente lo sviluppo della personalità dell’individuo, Bernhard esprime il più profondo disprezzo, la più irrevocabile repulsione, che neppure il fresco lutto riesce a mitigare (“Una cosiddetta tragedia familiare non giustifica il fatto che di quella famiglia si falsi radicalmente l’immagine. Che si ceda ad un repentino sentimentalismo e, addirittura, ci si annulli più o meno in esso”). Così la morte dei genitori e del fratello diventa l’occasione per un fedele e impietoso resoconto (è proprio questo il termine, burocratico, notarile e al tempo stesso significativamente simile nell’etimologia a “resa dei conti”, che l’autore utilizza quando parla del libro che Murau intende scrivere al suo ritorno a Roma), un resoconto – dicevo - degli anni di silente oppressione, di subdola tirannia, di plagio spirituale che hanno rovinato la vita del narratore, trasformandolo in un essere arido, tormentato e anafettivo. Ipostasi di questa non-vita è Wolfsegg, il feudo di famiglia, “ignobile inferno di provincia”, “roccaforte dell’ottusità”, le cui finestre non vengono mai aperte, quasi per paura di fare entrare, insieme all’aria fresca e pulita, anche il vento dei tempi nuovi, e le cui cinque, ricchissime biblioteche rimangono stolidamente chiuse a chiave, a preservare e custodire per chissà quale posterità un tesoro tanto prezioso quanto sterile. Tornare a Wolfsegg è per il protagonista, che da Wolfsegg si era faticosamente affrancato anni prima per seguire la propria vocazione artistica e intellettuale, una pena infinita, che neppure il profluvio di odio che egli vi riversa riesce a placare.
C’è una tale quantità di insofferenza, un tale accumulo di disgusto nelle pagine di “Estinzione”, che il lettore fa veramente fatica a non farsi sopraffare dalla furia iconoclasta del narratore, a credere fino in fondo all’obiettività delle sue parole (tanto è vero che egli stesso a volte prova orrore per i suoi pensieri, pur ammettendo che quei pensieri “dovevano essere pensati”), fino ad arrivare a dubitare della sua stessa sanità mentale, come se di fronte avesse uno psicotico monomaniaco in preda a continue idee fisse (come quella, per fare un solo esempio, di aprire di fronte a tutti la bara della madre, dove è stato composto il suo corpo orrendamente mutilato dall’incidente). In realtà Bernhard è perfettamente consapevole di esagerare, anzi si proclama un artista dell’esagerazione. “La mia arte dell’esagerazione io l’ho sviluppata fino a vette incredibili. Per rendere comprensibile una cosa dobbiamo esagerare, solo l’esagerazione dà alle cose forma visibile, anche il pericolo di esser presi per pazzi non ci disturba più”. In queste pagine, Bernhard scopre le sue carte e rivela con inattesa sincerità che la sua arte dell’esagerazione gli è indispensabile per rendere sopportabile l’esistenza, “per salvarmi dalla miseria della mia disposizione d’animo, del mio tedio spirituale”. Attraverso le sue stesse parole riusciamo a intuire che la sgradevolezza di Murau, la sua crudele assenza di ipocrisia, il suo manicheismo fanatico nascondono una sofferenza autentica, un’anima sensibile e sanguinante che la spessa corazza di cinismo e di indifferenza che si è costruita addosso lascia trapelare a stento. Solo così siamo in grado di comprendere la profonda umanità di questo spirito puro dal pessimo carattere e dall’inflessibile inclinazione al fallimento, solo così possiamo intuire quale incalcolabile devastazione un ambiente retrogrado e bigotto abbia prodotto sul carattere fragile di un bambino indifeso, solo così siamo capaci di accettare nel suo significato più profondo, e non solo polemico e oppositivo, le pagine agghiaccianti sulla madre (“incarnazione del male”, “una persona di assoluta anticultura”, avida, brutale, calcolatrice e senza scrupoli, di cui persino il ricordo infantile del bacio della buonanotte ispira sentimenti di ripugnanza) o quelle non meno spietate (e oggetto di tante risentite accuse da parte dei suoi connazionali quando lo scrittore era in vita) sulla patria (“La mia esistenza è la perpetua liberazione da quello spirito nefasto dell’Austria”). L’unica soluzione è allora, attraverso la rievocazione onesta e priva di compassione del passato, quello di estinguerlo, di distruggerlo, di disintegrarlo, pur nella consapevolezza che ciò significa fatalmente anche la disgregazione e l’estinzione del proprio io.
Quale abissale differenza c’è tra Bernhard e Proust! Laddove lo scrittore francese nella sua “Recherche” ambiva a rievocare il passato per consegnarlo all’eternità, l’autore austriaco disseppellisce sì gli anni della sua infanzia, ma solo per annientarli, conscio che, una volta esauriti e per così dire svenduti per due soldi, tra le dita non può che rimanere la polvere del vuoto assoluto. Come in una singolare riedizione del mito di Orfeo ed Euridice, “quando ti volti, non vedi mai altro che il vuoto assoluto, non solo per quanto riguarda l’infanzia, qualsiasi cosa, quando è passata, non è mai altro che vuoto assoluto. Per questo è un bene se non ti volti più indietro, non devi più voltarti indietro, se non altro per salvaguardare te stesso”. Visto in quest’ottica, il colpo di scena conclusivo (la rinuncia all’eredità di Wolfsegg, che viene donata, in un estremo atto di espiazione, all’amico Eisenberg, rabbino capo della comunità ebraica di Vienna) è l’unico finale possibile di un libro che tocca i più oscuri e tormentosi abissi del nichilismo. Si sbaglierebbe però a pensare che quella di Bernhard sia una lettura depressa ed angosciante. In “Estinzione” non mancano infatti pagine di geniale sarcasmo, come quelle in cui chiama ripetutamente il cognato con il semplice appellativo di “fabbricante di tappi per bottiglie da vino di Friburgo”, anziché con il suo vero nome. Lo stesso stile bernhardiano, tanto particolare da non riuscire a trovarne di simili nell’intera storia della letteratura, ha l’effetto di creare un controcanto ironico alle invettive del narratore. Si pensi alle continue, insistenti e ossessive ripetizioni (c’è un brano in cui l’espressione “far nulla” ricorre addirittura ventidue volte in soli sei periodi!), che all’inizio infastidiscono e quasi offendono, in quanto sembrano farsi beffe di qualsiasi elementare regola di buona scrittura, ma che poi si rivelano semplicemente perfette, oltre che per ridicolizzare i destinatari delle feroci critiche di Murau (come il refrain sulle “facce beffarde” delle sorelle nella vecchia foto che egli conserva nella sua casa romana), anche per creare un ritmo sinuoso, ipnotico e quasi musicale. Lo stesso si può dire delle frequenti anafore, le quali mentre contribuiscono a scolpire in maniera icastica i concetti (repetita iuvant!), danno alle frasi un andamento lirico e sincopato (si legga ad esempio il seguente brano: “Nella tomba, si rivolterebbero, se potessero riaprire gli occhi e vedere tutto ciò che, con la loro nobile parola socialismo, oggi viene spacciato e diffuso fra i popoli. Nella tomba, si rivolterebbero, se potessero vedere che razza di scempio viene fatto in Europa e in tutto il mondo di quella loro nobile parola. Nella tomba, si rivolterebbero, per questo abuso politico, il più colossale di tutti. Nella tomba, si rivolterebbero, nella tomba, si rivolterebbero, avevo ripetuto più volte a Gambetti”). Un’altra particolarità della prosa di Bernhard è il singolare uso dei tempi verbali. Spesso la narrazione è infatti al tempo presente, ma riferita al passato, il che produce curiosi effetti anacronistici: quando il narratore si reca a Wolfsegg per il funerale dei familiari morti, sentiamo pronunciare espressioni come “Johannes si sposerà” (cosa impossibile, visto che il fratello è morto), perché esse corrispondono ai pensieri avuti qualche giorno prima, in occasione delle nozze della sorella; oppure, quando ricorda il sogno raccontato tempo prima a Gambetti, Bernhard inanella tempi diversi uno dietro l’altro (“…dice Eisenberg, dissi a Gambetti”). Va detto, a questo proposito, che l’espressione “dissi a Gambetti” o “avevo detto a Gambetti” ricorre praticamente dalla prima all’ultima pagina del romanzo, costituendo una sorta di cantilenante e bizzarro leitmotiv (che mi ha ricordato alla lontana il “sostiene Pereira” di Tabucchi). In un libro di infelicità e di solitudine, di ostilità e di morte, l’incessante bisogno di ricorrere all’amico-allievo Gambetti (che non compare mai – si badi bene – come personaggio, se non nei ricordi di Murau) ha quasi un valore catartico e idealizzato. A pensarci bene, Gambetti potrebbe anche non esistere, non corrispondere a un personaggio reale, ma essere solo, all’interno di un testo profondamente nichilista ma che pure rifiuta di consegnarsi alla disperazione più assoluta, una fiammella di speranza la quale, a dispetto di ogni evidenza, non si vuole rinunciare a tenere viva, o addirittura una sorta di psicanalista immaginario che, nella testa del protagonista, lo guida in un algido e astioso, ma anche a suo modo commovente, processo di elaborazione e di rimozione degli irreparabili traumi provocati da un terribile, ignominioso passato.
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Per il riferimento a Ingeborg si, lo avevo letto in un articolo sul web, infatti non conoscendo ancora l'autrice mi sono promessa di leggere qualcosa di suo.
Complimenti. Chissà che un giorno non mi accinga anche io in queste vostre imprese, al momento passo...confesso però che siete degli attentatori ai buoni propositi di lettura stabiliti io mese scorso! Arghh
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(il pezzo sulla letteratura da funzionari di Musil e Mann rispetto a quella del funzionario Kafka mi ha deliziato, così come la scena del matrimonio della sorella, o quando descrive il cognato, l'ironia comica non manca mai. Infatti in una sua intervista, Bernhard afferma che non capisce perché la critica accusa la sua opera di troppa cupezza perché lui, quando ha voglia di farsi una risata prende in mano "Gelo"- una sua opera- e il gioco è fatto.)