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Qualcuno doveva aver calunniato Josef K.
IL PROCESSO di Franz Kafka è un breve interminabile incubo, narrato con l’eleganza affilata di un coltello da macellaio.
Il paradosso della colpa inevitabile è narrato in luoghi quotidiani, trasfigurati da un doppiofondo metafisico. I personaggi, descritti con minuzia surreale, ricordano gli alieni della porta accanto. I dialoghi palleggiano con grazia l’assurdo, scorticando la superficie razionale della realtà: la stessa che sembra appartenerci, la stessa che sembra ancorata alla solidità ingannevole della materia.
Il ritmo narrativo è lento, ma incalza il lettore fin dall’incipit, come il processo che invade la vita di Josef K. in poco tempo. Il tribunale, con i suoi locali saturi di aria poco respirabile, allunga i suoi tentacoli ovunque, vicino alle case, nelle soffitte, dietro i letti, nascosto da porte improbabili.
La legge è umana, divina, onnipresente, eterna. La legge è un ingranaggio di significati inafferrabili dalle parole, un mostro che ingombra, soffoca e uccide. Le nostre parole si perdono in circoli viziosi senza ritorno, quando tentano di esprimerla. Un’unica certezza: l’assoluzione reale è impossibile, soprattutto se si è innocenti. Al massimo, si possono ottenere dei simulacri. Povero Josef K. Poveri noi.
Una delle opere più angoscianti che mi sia capitato di leggere. Una delle migliori.