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Storia di un vagabondo
Prima di tutto questo è un romanzo russo. E non perché sia stato scritto in russo originariamente, ma perché trasuda di amore e nostalgia per la Russia. Di impronta autobiografica, il romanzo narra la giovinezza e la formazione di Martin, ragazzo di lontane origini svizzere, nato e cresciuto in una colta e benestante famiglia russa ma che, per via della rivoluzione bolscevica dovrà abbandonare la patria per salvaguardarsi, iniziando così un lungo viaggio che il finale dimostrerà essere concentrico.
"Durante il fastoso autunno svizzero per la prima volta capì chiaramente di essere, alla fin fine, un esule, condannato a vivere lontano dalla patria."
E' un romanzo fortemente descrittivo in cui i riflettori puntano più l'esterno, l'ambiente e le vicissitudini storiche e si concentra meno sull'indagine psicologica dei personaggi però la maestria di Nabokov sta nel riuscire comunque a farla emergere indirettamente, attraverso questa espressività che non diventa mai logorroica ma rimane sempre equilibrata e soprattutto metaforica:
"Il compito era arduo: trovare un'armonia tra erudizione e prosa stringata ma espressiva, per offrire il ritratto perfetto di un millennio orbicolare."
C'è molta grazia in questo libro, che sa di fresco e di fanciullezza, di prime speranze, il primo amore, il primo lavoro e la voglia di realizzare concretamente le proprie fantasie! Martin ne ha tante di fantasie e costruirà il suo carattere, coraggio e determinatezza fino a prendere una decisione folle per alcuni, sentimentale e malinconica per altri, ma sicuramente indispensabile per il protagonista. Decisione che viene già anticipata all'inizio del libro, in una bellissima fantasia in cui Martin penetra dentro il quadro della sua cameretta, raffigurante un sentiero che si perde dentro un fitto bosco. Quindi, anche la struttura del libro rimane particolare con molte dicotomie.
"Si diceva che la Russia fosse l'unica cosa al mondo che quell'inglese amasse. Molti non capivano perché non vi fosse rimasto. La risposta che Moon invariabilmente dava a domande del genere era: "Chiedete a Robertson" (l'orientalista) "perché non è rimasto a Bibilonia". A chi obiettava, con assoluta ragionevolezza che Babilonia non esisteva più, lui replicava annuendo con un muto sorriso sornione. Riteneva che l'insurrezione bolscevica rappresentasse un taglio netto. Pur essendo disposto a concedere che, un po' alla volta dopo le fasi iniziali di barbarie, nell'"Unione Sovietica" si sarebbe potuta sviluppare una forma di civiltà, sosteneva tuttavia che la "Russia" era conclusa e irripetibile, che la si poteva sollevare fra le braccia come una splendida anfora per metterla sotto vetro."
Leggendo questo libro mi è venuto in mente Hans Castorp e il fragile Marcel, sicuramente Martin avrebbe legato parecchio con questi altri due personaggi.
Ps: non do il massimo dei voti solo perché rispetto ai suoi altri capolavori si sente una sfumatura creativa leggermente acerba, che presto verrà maturata.
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