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Il muro
È un ufficio come tanti, scrivanie, sedie, computer, ascensori e bagni; colleghi più o meno conosciuti, vite che non sono la tua, convivenze forzate, amicizie smorzate, gesti ripetitivi, arrivismo e competizione. È l’ufficio moderno di un paese moderno, con le pareti curate e il pavimento da calpestare solo con scarpe pulite o pantofole. E poi c’è una stanza strana, ordinata e senza polvere, aperta lungo il corridoio; la stanza che Bjorn ha scoperto senza averla mai prima vista e nella quale ritrova la pace e la tranquillità di cui ha bisogno. Il fatto è che la stanza esiste solo per lui: quando lui è lì dentro, per i colleghi sta solo fissando il muro bianco per minuti interi. Perché Bjorn, anche se non viene mai detto, vive in uno spazio mentale diverso dai più: ossessivo-compulsivo, ordinatissimo, ma autistico e incompreso, viene relegato a riempire stampanti e compilare elenchi. Eppure lui è più bravo di tutti a scoprire la logica delle direttive che vengono dall’alto e a riscriverle in un modo tanto limpido da sembrare miracoloso. E allora l’ufficio, sulle fiamme dell’invidia e della emarginazione, diviene il campo di battaglia di due fazioni inconciliabili, di due mondi che non possono tollerarsi, quello di Bjorn e quello dei normali: il primo, antipatico e tronfio, ma quasi commovente nella sua dispercezione e nelle sue idee francamente maniacali; i secondi spaventati e aggrappati all’ordine fragile delle cose. In quella che diventerà una lotta all’ultimo colpo per il futile potere dell’ufficio, Bjorn resterà il più debole e risponderà al divieto impostogli di non entrare più nella stanza come un animale ferito, scomparendo nel muro.
Non era facile descrivere il mondo dagli occhi di una persona con alterazioni psichiche e per buona parte del testo il lettore dubita dell’esistenza o meno della stanza, perché in fondo il mondo è sempre il nostro mondo e non basta quello che viene visto dai più per definire la normalità. Karlsson segue la scia, sebbene con altre ambizioni, di Faulkner che fa parlare Benjamin nel suo “L’urlo e il furore”: costringe a entrare in un mondo diverso per accettare la diversità. E mi spiace molto che questo libro sia stato ridotto ad una mera metafora dell’alienazione del lavoro moderno, perché credo vada molto oltre: l’ufficio è, nel suo piccolo, specchio di un mondo dove siamo lontanissimi dall’accettazione, dall’integrazione e da ogni altra forma di comprensione. La guerra isterica di questo ufficio contro Bjorn ha, in fondo, le stesse basi delle guerre di fuoco e proiettili che torturano il mondo. Libro essenziale nello stile, rapido nei capitoli, ma inaspettatamente doloroso nella sua inappellabilità.
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