Dettagli Recensione
L'INCANTO SEGRETO DELLE PAROLE
“La definizione è per sua natura finita, è limite e confine, mentre io voglio il lontano, […] cerco l'infinità in cui tutto, tutto si riunisce.”
“Un vero scrittore dovrebbe infischiarsene di tutti i lettori salvo uno: il lettore futuro.”
Che bella sorpresa, quale inatteso regalo è stato per me leggere “Il dono”, il cui titolo mi appare retrospettivamente quanto mai appropriato e allusivo, dal momento che ho terminato questo ultimo romanzo russo di Nabokov proprio durante le recenti festività, praticamente tra il panettone di Natale e lo spumante di Capodanno! “Il dono” è un'opera straordinariamente eclettica, dalle mille, proteiformi, facce: è un romanzo parzialmente autobiografico (dal momento che il protagonista, checché ne dica l'autore, condivide con esso svariate esperienze di vita – l'esilio a Berlino, l'essere rimasto orfano del padre – e altrettante intime peculiarità – ad esempio, l'amore per l'entomologia e il gioco degli scacchi), una satira sul mondo degli intellettuali russi emigrati all'estero dopo la Rivoluzione, un'invettiva venata di beffardo sarcasmo contro il bolscevismo, ma anche – e soprattutto – un magnifico libro sulla nostalgia: per la madrepatria (una nostalgia “che si è attaccata come argentea sabbia di mare alla suola delle scarpe, che vive negli occhi, nel sangue, che dà spessore e profondità allo sfondo di ogni speranza”), per il padre scomparso (un uomo che conosceva “due o tre cose che nessun altro sapeva”), per la letteratura del passato, con i grandi scrittori russi (Puskin in primis) a fare da esigenti muse ispiratrici. Banalmente, si potrebbe riassumere “Il dono” come la storia di Fedor Konstantinovic Godunov-Cerdyncev, che si barcamena come meglio può tra le ristrettezze economiche di un esiliato (squallide camere in affitto, lavoretti saltuari di traduzione, pochi spiccioli in tasca) e le aspirazioni artistiche di un letterato non disposto a scendere a compromessi con la prosaica realtà che lo circonda (siamo nella Germania pre-nazista degli anni '20, “questo paese opprimente come un'emicrania”, dove ”la famosa bonomia tedesca con tanta facilità e naturalezza può divenire in qualsiasi momento rabbioso ululato”). Ma “Il dono” è molto più complesso e articolato di quello che una succinta epitome potrebbe mai lasciare intuire. In fondo quello che si legge nelle quasi cinquecento pagine del libro è la lenta, progressiva maturazione in Fedor Konstantinovic della decisione di scrivere il libro stesso che abbiamo davanti agli occhi, è quindi il processo creativo di un'opera raccontata – se così si può dire – nel suo farsi (non a caso “Il dono” si apre con il protagonista che, assistendo a un trasloco nel quartiere dove abita, commenta: “Sarebbe un buon inizio per un bel romanzo lungo, di quelli che si scrivevano una volta”). Ci troviamo di fronte a un testo dalla forte impronta meta-letteraria, quasi sperimentale, pur nella classicità di uno stile meno barocco e pirotecnico di quello a cui Nabokov abituerà il lettore durante il periodo americano (ma non manca anche qui qualche singolare fuoco d'artificio verbale, come quando, guardando un'insegna colorata in cui le lettere luminose si accendono una alla volta, obliquamente, come su una scala, Fedor Konstantinovic immagina quale parola potrebbe mai raggiungere il cielo, e così facendo inventa un caleidoscopico neologismo, “adamantinopalebanocramarantaranciaccesolivastrazzurroltremarindacobaltavorio”). La struttura de “Il dono” è particolarmente elaborata e composita, anche se a prima vista non sembrerebbe. Al suo interno, come in un gioco di scatole cinesi, c'è un capitolo (la “Storia di Cernysevskij” scritta da Fedor Konstantinovic) che è un romanzo all'interno del romanzo. Inoltre il libro sul padre – che la madre del protagonista lo incita a scrivere ma che egli non si sente all'altezza di realizzare – è in fondo contenuto subliminalmente nella lunga digressione del secondo capitolo, interamente dedicata all'adorato genitore e dove egli immagina di partecipare ad uno dei suoi avventurosi ed esotici viaggi scientifici (Nabokov si diverte cioè a fare il prestigiatore, svelando con una mano ciò che fa finta di nascondere con l'altra). C'è poi una curiosa commistione tra fantasia e realtà, se si pensa che il quarto capitolo (quello dedicato alla “velenosa” biografia di Cernysevskij) è stato a lungo censurato, e di conseguenza espunto dalle varie edizioni che si sono succedute fino a quella definitiva del 1952, allo stesso modo in cui nella finzione narrativa esso viene rifiutato dalla casa editrice di Vasilev.
Di arditi paradossi e di sorprendenti mises en abyme è pieno il capolavoro nabokoviano, ma quello che da esso maggiormente traspare è l'amore smisurato per la letteratura, sia quella del passato, con ispiratissime citazioni e rimandi culturali che purtroppo non sono facilmente comprensibili dal lettore occidentale (che conosce sì Puskin, Turgenev, Gogol e Lermontov, ma che ignora probabilmente chi siano Belyi, Bunin o Esenin e mai immaginerebbe che il “Che fare?” di Cernysevskij sia stato al centro di una accesa disputa ideologica tra i fautori dell'arte per l'arte e quelli dell'arte materialista e rivoluzionaria – va da sé che Nabokov, il quale con il suo protagonista giudica “Che fare?” “un riassunto da scolaro, un'infantile valutazione delle più ardue questioni morali”, si colloca tra i primi), sia quella che Fedor Konstantinovic, assecondando la sua impellente vocazione, cerca di creare in ogni ora delle sue giornate. Egli è letteralmente imbevuto di arte e vive costantemente in funzione della poesia, guardando ad ogni evento anche minimo della sua esistenza, ad ogni successione casuale di fatti, come a uno spunto potenziale da conservare e da riportare nelle sue strofe. Il mondo per lui è un'entità da assorbire e riplasmare in continuazione, al solo fine di ricavarne l'ispirazione per i suoi versi. Si potrebbe pensare che egli viva la vita solo in maniera indiretta, un po' come quei fotografi che non riescono più a vedere le cose con i loro occhi, ma solo attraverso l'obiettivo della loro macchina fotografica. In realtà la sua ambizione è nientemeno che quella di ricreare il suo passato, di restituirne intatte e con l'originaria vividezza la più sottili sfumature, le più impalpabili nuances. Come il suo omologo borgesiano Funes, ma con ben diversa consapevolezza (là dove c'era la sofferta impossibilità di sopportare una mole smisurata di ricordi, qua c'è l'esaltazione “per il barattolo di latta su un terreno vago, per la figurina di un pacchetto di sigarette calpestata nel fango, per la povera parola colta al volo, ripetuta da una persona buona, debole, amorosa, che è stata appena rimproverata senza motivo, – per tutto il pattume della vita che [...] si trasforma in qualcosa di prezioso e eterno”), Fedor Konstantinovic fruga come un rabdomante nella sua memoria per ritornare al paradiso perduto della sua infanzia. Egli arriva in tal modo a rompere le barriere del tempo: si immerge in maniera talmente profonda nei lontani ricordi del passato che al lettore sembra di stare passeggiando con lui nel parco della sua villa avita (con tanto di minuziose osservazioni sulle pozzanghere del selciato o sui riflessi della luce che trapela dagli alberi), quando invece all'improvviso un brusco richiamo della realtà sgretola le immagini ricostruite fedelmente dalla memoria per farlo ripiombare nel mediocre presente berlinese; oppure, con un procedimento specularmente contrario, riesce con inaudita intensità di forme e colori a trasfigurare uno squallido vicolo della capitale tedesca nel piazzale della villa russa di un tempo, davanti alla quale la famiglia sta in posa come nella fotografia ingiallita che egli conserva gelosamente nella sua stanza. Il protagonista de “Il dono”, come Proust, è alla continua ricerca del tempo perduto (è solo un caso che il suo libretto di liriche si apra con una poesia su un pallone perduto e si chiuda con una poesia su un pallone ritrovato?), ma mentre per lo scrittore francese il tempo resuscita come per un involontario miracolo dalle lontananze del passato, quello del poeta nabokoviano è un recupero frutto di un indefesso e ostinato sforzo di volontà teso a non far svanire le impressioni di una volta e restituirle nella maniera più fedele possibile nei versi delle sue composizioni. Con analoga abnegazione Fedor Konstantinovic si dedica al compito di trasfigurare la realtà, cercando di decifrare il suo codice segreto (“le cuciture e gli squarci del giorno primaverile, le scabrosità dell'aria, i ruvidi fili di suoni confusi che si incrociavano a casaccio – non era altro che il rovescio di un tessuto magnifico sul cui diritto si andavano formando e un po' per volta prendevano vita immagini a lui invisibili”).
E' impossibile non voler bene a Fedor Konstantinovic, personaggio che pur non amando troppo mescolarsi agli altri e pur conscio della sua superiorità intellettuale, non manifesta mai superbia o alterigia. Certo, egli, nonostante la sensibilità cui cerca di improntare la sua vita, soffre di umanissime debolezze, prova invidia per l'affermato collega Konceev (con il quale riesce solamente con l'immaginazione, in due diverse circostanze, a intavolare un appassionato dialogo filosofico tra anime elette) così come gelosia nei confronti del precedente fidanzato di Zina, la ragazza, figlia dei suoi locatori, di cui è innamorato. Ma Fedor Konstantinovic ha anche una grande dignità, e quando Vasilev respinge il suo manoscritto avvisandolo che tutti gli volteranno le spalle, egli risponde con una frase memorabile: “Io ho un debole per le nuche”. Nabokov si diverte a metterlo in situazioni scabrose: per ben due volte perde le chiavi e rimane chiuso la notte fuori di casa, quando d'estate si reca al parco per prendere un po' di frescura gli vengono rubati i vestiti ed è costretto a rientrare vestito del solo costume da bagno. Ma Fedor Konstantinovic affronta queste prove, così come la precarietà abitativa o l'indigenza, con una encomiabile fierezza, quasi come se l'arte, grazie alla quale cerca di conquistare un suo spazio nel mondo (e una improbabile immortalità tra i posteri), fosse una protezione sufficiente a fargli superare qualsiasi delusione e qualunque difficoltà, mettendolo al riparo dalle tempeste dell'angoscia e del dubbio. In lui si esprime un incondizionato e, trattandosi di Nabokov, anche parzialmente inaspettato, amore per la vita (“come è intelligente, com'è squisitamente maliziosa ed essenzialmente buona la vita!”), un fiducioso abbandono alle sfide del destino. Tutto “Il dono” è pervaso di ottimismo e di vitalità: dello stesso Puskin, morto come si sa in giovane età in seguito alle ferite subite in un duello, si dice “come desiderava vivere!”. Mi piace pertanto terminare la recensione di questo libro, capace di offrire un sofisticato e raffinatissimo godimento intellettuale ai lettori più esigenti, proprio con una poesia di Puskin, citata da Fedor Konstantinovic.
Oh no, la vita non mi tedia:
io amo vivere, mi piace.
Ignoro il gelo dell'accidia
anche se il cuore vuole pace.
Al sole mi riscalderò
di genio e di bellezza.
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Commenti
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Ho letto questa interessante recensione ed anche i commenti giù. Sono tentata da tempo di leggere Lolita, ma ho messo in carrello direttamente “Lezioni di letteratura” dell’autore che da quello che ho capito scrive magistralmente, ma in alcuni passaggi non suscita plauso unanime soprattutto in Lolita. Sono curiosissima. Purtroppo il tempo è quello che è... riuscirò mai a leggere anche questo libro così bello che proponi tu?
Nella prima top, posso dire che la condivido con te, tranne Marquez che non riesco a legare con lui probabilmente gli devo dare altre possibilità. Tolstoj si, mi piace, ne ho letto quasi tutte le sue opere, tranne i racconti, e tutto sommato lo trovo troppo moralista e bacchettone passami il termine. Dalla seconda invece conosco solo Saramago, Pynchon(anche se ancora non ho letto un suo romanzo completo) e Wallace di cui amo solo Infinite Jest, per il momento.
La Woolf è fantastica, io non amo molto le scrittrici perché a mio avviso i maschi hanno una marcia in più nell'arte, per un motivo o per un altro ma la Woolf la trovo molto "maschile" e un'altra scrittrice che stimo e che mi ha incantato è la Yourcenar di cui ho letto solo L'opera al nero ma mi è bastato per inquadrarla tra i grandi.
Chiusa questa parentesi, attendo le tue impressioni su Estinzione, e anticipami qualcosina non tenermi sulle spine fino al commento finale ahahahah...
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Sicuramente Nabokov è la tra le mie letture dell’anno. Ho a casa Lolita, Il dono, Fuoco pallido, La difesa di Luzin e Ada o Ardore, quindi la scelta non mi manca ahahah