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Un uomo da marciapiede
 
Un uomo da marciapiede 2020-01-10 08:46:29 FrancoAntonio
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3.8
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
3.0
FrancoAntonio Opinione inserita da FrancoAntonio    10 Gennaio, 2020
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Lo squallore della solitudine tra la folla

Joe Buck è un giovane texano di venticinque anni, ma con le esperienze e l’ingenuità di un teenager di provincia e neppure troppo sveglio. Nella sua vita affettiva sono sempre state assenti le figure di riferimento: padre totalmente ignoto, madre incerta (!!), nonna raramente presente. Sporadiche e superficiali pure le relazioni amorose. Ma è belloccio, aitante e sa far bene l’amore. Dopo aver subito una scioccante esperienza per la crudele beffa tramata ai suoi danni da colui che reputava essergli amico, decide di dare un taglio netto al passato e di trasferirsi a New York per fare ciò lui crede di saper fare bene: incantare le donne tra le lenzuola. Purtroppo la realtà che troverà sarà assai diversa dalle sue aspettative. La sua candida inesperienza ne fa il bersaglio ideale di profittatori e truffatori. In breve i pochi soldi che aveva con sé si esauriscono e la carriera da gigolò non parte. Pure il suo bel guardaroba da cowboy metropolitano finisce sequestrato per insolvenza. Ridotto a una vita randagia il solo che saprà stargli accanto è Rico (Zozzo) Rizzo, un ragazzotto italo americano piccolotto, storpio e malaticcio. Nonostante sia stato uno dei primi ad approfittare di Joe, ne diverrà amico e confidente e con lui dividerà alloggio ed espedienti nel tentativo di tener lontani la fame, il freddo e la solitudine che spazzano le strade della Grande Mela. Da quel momento Joe e Zozzo diverranno una coppia inseparabile sino alla tragica, struggente separazione che farà da epilogo alla storia.

Avevo un lontano ricordo della strana coppia cinematografica: il lungo Jon Voight, fasciato in una giacca di pelle a frange, e il piccolo, sciancato Dustin Hoffman, che gli saltellava a fianco come un grillo zoppo. Avevo visto il film un paio di volte, in una versione televisiva probabilmente super censurata, e mi aveva lasciato addosso una profonda malinconia, ma pure la sensazione che fosse una bella storia di amicizia e solidarietà tra uomini.
Ho voluto verificare quelle atmosfere leggendo il romanzo dal quale il regista John Sturges aveva tratto il film vincitore di tre premi Oscar.
Giunto alla parola fine sono restato con un sapore amaro in bocca e una sensazione d’angoscia nel petto.
La vicenda è oltremodo deprimente e scoraggiante. Ci si irrita per l’incommensurabile, deprecabile ingenuità del povero Joe, che non impara mai dai propri errori, ma li ripete con insistita pervicacia aggiungendone continuamente dei nuovi. Si subisce come una malattia la desolazione delle situazioni in cui si muove. Si rimane quasi infettati dallo squallore in cui i due compari si dibattono disperatamente, come catturati da sabbie mobili che non riescono a scrollarsi da dosso. Si giunge ad odiare l’ambiente surreale in cui vivono.
Insomma il libro è tutt’altro che gradevole. Il confortante tepore, che la pretesa amicizia tra Joe e Zozzo dovrebbe infondere, è quasi impercepibile, mentre opprimente e invasivo è il senso di disperata solitudine che pervade ogni cosa, anche nei momenti in cui i due protagonisti sono immersi nella folla eterogenea. Anche quando cercano di consolarsi e sostenersi a vicenda.
Sotto questa prospettiva il libro è potente, i messaggi che ci invia sono soffocanti, angoscianti, ma decisamente chiari e univoci. Innanzi tutto, come afferma uno dei personaggi secondari della storia, non c’è beatitudine per coloro che sono soli. Poi, ancora più terribile, il mondo, la società in cui viviamo è una belva feroce, priva di pietà; è costantemente in agguato per predare i deboli e gli indifesi e sbranarli nelle sue fauci insaziabili.
Messaggio chiaro, ripeto, ciò nonostante ho avuto l’impressione che tra le righe si nasconda qualcosa di volutamente artificiale, eccessivo. Anche lo stile adoperato non mi ha convinto del tutto: spesso è asciutto e diretto, sin troppo crudo. Talvolta, all’opposto, diviene eccessivamente suggestivo, immaginifico, l’equivalente letterario dell’impressionismo pittorico. Le parole sono usate non tanto nel loro proprio significato, ma per l’effetto che il loro suono produce in noi. Il risultato finale è un’armonia distonica che ben trasmette i mutevoli stati d’animo, che dipinge i continuamente variabili contesti che si vogliono evidenziare, ma, nel contempo, appare un po’ troppo costruita, artefatta.
Insomma un bellissimo libro, non si può negarlo, ma pure un’opera problematica, che suscita dubbi e perplessità. Sicuramente non un romanzo facile che rasserena e arreca piacere al lettore, ma un’opera che fa pensare. E i pensieri che suscita sono spesso cupi e demoralizzanti.

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