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QUESTO GIOCO E' UN LABIRINTO
Ci sono delle pagine di orrore puro e assoluto ne “Il gioco del mondo”, e per la precisione sono quelle in cui Oliveira prima, e gli altri amici del Club del Serpente dopo, si accorgono che il figlio della Maga, da giorni in preda a una fortissima febbre, è morto, ma nessuno trova il coraggio di fare alcunché (“Adeguarsi allo stereotipo… Urlare, accendere la luce, fare il finimondo di rito. Perché?… Fare secondo lo stampo quel che si deve in questi casi. Ah, no, basta. A che scopo accendere la luce se so che non serve a niente?”), e tutti aspettano che sia la madre a scoprire da sola la disgrazia, continuando a parlare come se niente fosse di arte e filosofia, con il cadavere del neonato a pochi metri. In queste illuminatissime pagine si sintetizza quello che è uno dei leitmotiv del romanzo: l’incapacità dell’intellettuale di agire, la distanza incolmabile e inesorabile tra intelletto e azione, tra mente e corpo, tra arte e vita, tra cultura e natura, istanze inconciliabili di cui sono rappresentanti Oliveira e la Maga. Se il primo è un loico che ama far precedere la riflessione all’azione, la Maga è puro istinto: ad esempio, per Oliveira il disordine stesso in cui egli vive nella soffitta di rue de la Huchette è il risultato di un metodo, di uno stile di vita intenzionalmente adottato, mentre nella Maga non c’è questa consapevolezza o progettualità, ma un abbandono cieco al fluire della vita. Ma non si tratta solo di questo. Oliveira, “sempre timoroso di perfezioni”, non è solamente uno dei tanti intellettuali inetti a vivere cui ci ha abituati la letteratura dell’ultimo secolo; egli è anche un cercatore, un indagatore, quasi un mistico se non fosse che l’oggetto della sua ricerca non ha nulla a che vedere con il divino e con un aldilà trascendente. Egli cerca nientemeno di reinventare la realtà, di fare tabula rasa di tutte le sovrastrutture sociali, culturali e psicologiche che da millenni ce la fanno apparire come un qualcosa di dato e di immutabile, per farla infine risorgere vergine e incontaminata. In questo senso “Il gioco del mondo” sembra anticipare nientemeno che il ’68 e la sua ansia di rinnovamento della società, ed è forse per questo che il romanzo ha avuto un enorme successo tra i giovani di tutto il mondo. La ricerca di Oliveira porta però con sé due conseguenze negative: la perdita e la nostalgia. Per reinventare la realtà e trovare il mitico Centro, il “kibbutz del desiderio” in cui tutto si fonde e addiviene ad armonia ed unità, Oliveira è costretto a distruggere tutto, l’amore, l’amicizia, la rispettabilità, e a lasciare dietro di sé soltanto macerie. Soprattutto Oliveira è costretto a soffocare i sentimenti più umani, come la compassione, e ciò lo trasforma in un eroe tragico, nel momento in cui si rende conto dell’importanza di ciò che ha perso, e cerca inutilmente di recuperarlo, riconoscendone troppo tardi la purezza e il valore inestimabile (è il caso dell’amore per la Maga, abbandonata senza mezzi di sussistenza e con un figlio malato per non dover soccombere ai valori borghesi del dovere e della pietà). L’esito dell’utopistico progetto di Oliveira è uno solo: il fallimento (non è un caso che il romanzo dedica molte pagine ad altri velleitari progetti palingenetici, come l’intransigente riforma anti-tradizionalista della letteratura di Morelli e la bislacca Società delle Nazioni di Ceferino Piriz). Oliveira subisce a Parigi le umiliazioni più degradanti, viene ignominiosamente espulso e, tornato in patria, regredisce inesorabilmente, come un personaggio di Pirandello, nella pazzia. Nelle pagine ambientate a Buenos Aires il senso di perdita ed il rimpianto sono accresciuti dalla frequentazione di Traveler e di Talita, i quali sono dei veri e propri “doppi” di Oliveira e della Maga e col loro dimesso ma ugualmente felice tran-tran di coppia fanno intravedere quello che Oliveira avrebbe potuto diventare se non si fosse intestardito nel perdersi nella sua solipsistica e autodistruttiva condizione di prometeica solitudine. Il tentativo di creare rapporti, di allacciare contatti (il simbolo del ponte che ricorre in tutto il romanzo, dai ponts parigini alla precaria passerella che i due amici costruiscono per far sì che Talita possa portare il mate da una finestra all’altra dirimpetto) naufraga quindi nell’aridità e nell’inconsistenza delle sue teorie superomistiche.
Si è parlato tanto della struttura formale de “Il gioco del mondo”, delle sue due modalità di lettura (quella normale e progressiva, e quella, suggerita dall’autore, che costringe il lettore a saltare da un capitolo all’altro – dal numero 113 al numero 30, dal 57 al 70, e così via – seguendo un ordine solo in parte comprensibile), che distruggono la totemica unitarietà del libro come la si è sempre intesa. In realtà, la seconda modalità di lettura non cambia quasi nulla il senso del romanzo, ma ne accentua la sua costitutiva frammentarietà, permettendo ad aneddoti, elzeviri e riflessioni varie di insinuarsi ed ampliarne le prospettive in una direzione prevalentemente meta-letteraria. Quello che invece appare davvero rivoluzionario è lo stile di Cortazar, uno stile capace di reinventare letteralmente il linguaggio (basti pensare alla spassosa invenzione del gliglico, una lingua immaginaria che si pone come beffa del linguaggio razionale utilizzando parole senza significato, oppure a quel capitolo vagamente joyciano in cui si alternano, riga dopo riga, le prime frasi di un romanzo di Perez Galdos e i pensieri a ruota libera del protagonista), attraverso una assoluta padronanza dei mezzi espressivi, una sintassi originale e ironica, una creazione di dialoghi spericolatamente profondi e mai banali e, in fondo a tutto, la sensazione costante che ciò che si sta leggendo non sia rigidamente predeterminato dall’autore in tutte le sue sfaccettature, ma lasci al lettore un’ampia libertà di interpretazione. Insomma, Cortazar è stato un vero scrittore di avanguardia, a cui la successiva generazione di narratori latino-americani (basti pensare a Roberto Bolaño) deve moltissimo.
Indicazioni utili
"La vita, istruzioni per l'uso" di Georges Perec
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