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La blatta non ha sapore
Vorrei regalarvi, con questa recensione, almeno un frammento della gioia limpida e luminosa che questo libro mi ha regalato, anche se è faticoso e stancante, anche se quasi si vorrebbe che finisse quanto prima per riposare la mente e tornare a respirare. Clarice Lispector non è la scrittrice della grazia, come la Woolf, o la scrittrice della forza, come la Weil, ma quella della potenza: in lei la densità espressiva è più violenta della necessità letteraria e la pulsione viva che la nutre non conosce la pace calma di un amen. Lo stesso amen che per tutto il romanzo, senza mai dichiararlo, insegue la protagonista G.H., donna che in un giorno solitario scopre, nell’armadio della domestica, una blatta e che alla fine deciderà, dopo averla ferita ma non uccisa, di mangiare l’insetto. Se la trama è tutta qui, il libro è un percorso d’iniziazione, di ascesi mistica, un’esplorazione di profondità sconvolgenti che la conducono dalla repulsione più spontanea all’accettazione più sofferta, come se in quel liquido bianco e pastoso che esce dall’esoscheletro dell’animale si rivelasse il senso più puro del mondo. E già qui scopriamo il movimento più proprio di questo libro, il suo modulo espressivo: l’antitesi. Clarice Lispector ha superato le colonne d’Ercole del mondo che appare e si fa profeta difficile di un universo che presocratico, primordiale, umido e viscerale, un universo in cui gli opposti trapassano continuamente l’uno nell’altro e dove “Polemos”, padre di tutte le cose è solo l’ultimo gradino prima dell’amore più brillante. E noi seguiamo G.H., come adepti di un culto che ancora non capiamo, perché anche noi, come lei, sappiamo che la vita, così come è, è una prigione di segni e simboli e allora scortichiamola, per trovare in fondo, nel nocciolo della vita, nel nucleo incandescente dell’esistere, il sapore neutro della verità. O ancora, scopriamo che nel cielo più vuoto, abbiamo già oltrepassato la distanza tra il vero e il falso. Il miracolo, ci ricorda Clarice Lispector, è il millimetro che sta tra due millimetri consecutivi.
È celebre il comandamento di Wittgenstein: “su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere”. Ecco, l’opera tutta della Lispector, e di questo romanzo in particolare, è una violenza continua dei limiti imposti dal filosofo: Clarice vuole dire l’indicibile, riappropriarsi della materia viva, cieca che anima il mondo, scoperchiare le apparenze dell’umanizzazione e affrontare il profilo neutro delle cose, dimenticare i lineamenti e i dettagli, perché solo nella purezza che i dettagli non permettono si raggiunge il massimo della comprensione. Ecco, prendete una tela di Mondrian, una composizione di quadrati rossi, gialli e blu: questo il linguaggio primitivo (e per questo stesso motivo preverbale) che Clarice ricerca. E ora, come Fontana, tagliate la tela e fissate il muro che sta dietro. Siete arrivati alla radice della poetica di questa scrittrice che, posso dire con tranquillità, è tra le più grandi del secolo scorso. Non è facile, mangiare la blatta, nutrirsi della sua materia bianca e insapore: e G.H. ci racconta tutta la difficoltà, la paura di perdere quanto di umano c’è in lei, il terrore di vivere nel caos, la paura sacra dell’uomo che scopre un abisso di inaudite proporzioni.
“Palerò in quel linguaggio sonnambulo che se io fossi sveglia non sarebbe linguaggio” e ancora “È un silenzio di blatta che guarda. Il mondo si guarda in me. Tutto guarda tutto, tutto vive l’altro; in questo deserto le cose sanno le cose. Le cose sanno talmente le cose che questo… questo lo chiamerò perdono se vorrò salvarmi sul piano umano. È il perdono in sé. Il perdono è un attributo della materia viva”.
“La passione secondo G.H.” è un libro mistico che un lettore imprudente potrebbe perfino cestinare. Ma Clarice è stata onesta, in lei capire è creare. E a ben guardare il titolo è come una citazione dei vangeli. “Dal Vangelo secondo Matteo”, dal “Vangelo secondo G.H." E arrivati a questo punto finalmente capiamo la passione prima avevano scambiato per un furore amoroso. No, qui la passione è quella della via crucis, la stessa che Cristo ha affrontato per scoprire infine, anche lui, Dio e la stessa che affronta G.H. per arrivare a mangiare il bianco informe del mondo. Via crucis che è dolore certo, ma un dolore che è la forma massima dell’amore. In questa sublime e fatale trasformazione, sta il senso del libro e anche il lettore, che ha subito nella lettura la stessa via crucis, orami crocifisso, può finalmente guardare il volto delle cose, essere il volto delle cose: mangiare la blatta è un’Eucarestia. Violentare Dio, per mangiare Dio e alla fine scoprire che si è un’emanazione di Dio anche se non si sa chi è Dio.
Un libro bellissimo, che so, e lo so davvero, non essere per tutti, ma che pure non posso non consigliarvi.
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