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Umanità e fragilità
Scrivere è un profondo atto di coraggio. Perché significa aprirsi con persone terze totalmente sconosciute che leggendoci entrano in contatto con noi, scoprendo da quelle parole che vengono enunciate e destinate, piccoli o grandi segreti della nostra anima, perché significa mettersi in gioco con quelle che sono le proprie fragilità, le proprie debolezze.
Tuttavia, negli anni, può accadere che quel foglio bianco che si palesa innanzi ai nostri occhi, che si apre di fronte a noi, resti vuoto, resti incompleto. Perché quella storia proprio non vuole uscire, perché quella storia non può essere conforme a quella che viene richiesta dall’editore richiedendo, al contrario, di essere analizzata, scrutata, sviscerata perché personale, perché intima, perché causa. Ed è quello che succede a Nevo che, in quest’ultimo lavoro, si confessa, raccontandoci che proprio non è riuscito a scriverlo quel lavoro che era in programma, che ha dovuto fermarsi per raccontarsi, per raccontarci. Per trovare una risposta a quegli interrogativi che non sempre ne hanno.
Non stupisce dunque il trovarsi davanti ad un’opera dal carattere fortemente autobiografico, un elaborato che è costruito su domande a cui seguono altre domande e che si snodano attorno a due grandi fili conduttori: il rapporto con la scrittura e il rapporto con la moglie Dikla. La scrittura che rappresenta la finzione, la vita celata, la vita annegata tra le parole e la moglie che è sinonimo di vita vera, di realtà a discapito di quel compagno che rifugge costantemente dal concreto occultandosi in una dimensione che è al confine verità e dissimulazione.
Il tutto è accompagnato da riflessioni anche sulla società israeliana, sulla politica, sull’umanità. A far da cornice una penna meticolosa, erudita, precisa che scava nel profondo toccando le corde più intime e oscure del narratore e del lettore.
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